La piece parte dalla impossibilità di un incontro, un ultimo, tra Salvador Dalì e Federico Garcia Lorca, a pochi istanti dalla tragica fine del poeta andaluso per mano della milizia falangista.
Lo spunto trae forza dalla corrispondenza che intercorse tra i due, epistolario con un equilibrio piuttosto precario, visto che il corpus di lettere giunto fino a noi include per la maggior parte le missive inviate da Salvador a Lorca, mentre pochissime sono le risposte che Federico ha riservato al suo amico pittore.
Da questo spunto il regista e l’autore traggono linfa vitale per immaginare una storia d’amore e d’amicizia tra due dei maggiori protagonisti della cultura spagnola del ‘900, e se lo spunto ha dalla sua la forza del plausibile, dall’altro lato si avverte l’impossibilità di provare a immaginare, nel dialogo ininterrotto, un testo che prescinda dal corpus operistico Lorchiano. Quindi il ricorso continuo alla parafrasi operistica dell’autore di Romancero Gitano, è escamotage che tende a contestualizzare la narrazione tra le pagine delle opere che tutti conosciamo, intrecciandole a una possibile storia tra i due artisti di cui sappiamo tutto sommato così poco, e assegnandogli una credibilità che quelle lacune nella documentazione non ci concederebbero.
La Rosa del mio giardino è un perfetto esempio di come la musica possa farsi scena, luce, oggetto dell’attenzione e, infine, dialogo. Ad occuparsi di questo aspetto è il violoncellista Arcangelo-Michele Caso, che con l’aiuto di una loop station stratifica i suoni del suo strumento creando dei layers che agiscono in continuità con il ticchettare sempre più frenetico e dialogico dell’azione, e disegnano la tensione energetica che intercorre tra due uomini liberi ma profondamente legati l’uno all’altro, trovando raramente un vero e proprio spazio, nel densissimo testo che cita inventando, per aprirsi in un canto spiegato.
È un dialogo che trae la sua forza dall’innegabile carisma dei protagonisti e da un testo tambureggiante.
Claudio Finelli e Mario Gelardi cercano in Salvador la verve acida, il gusto della battuta tagliente, e il calembour pungente che nel poeta innamorato Federico non trovano sponda quanto la profonda sofferenza e fame d’amore inestenguibile del pittore, mentre Alessandro Palladino e Simone Borrelli rendono questa attitude sicuramente plausibile ed eccentrica con una interpretazione sopra le righe, sebbene di segno opposto, ma mai priva di sincerità.
Duilio Meucci