“Dobbiamo parlare”, sentenzia Ann. Non la ascolta suo marito Peter, assorto nella lettura del libro “più noioso e importante” mai pubblicato dalla sua casa editrice. Questo il leitmotiv del primo atto del dittico A Casa Allo Zoo, in scena al presso il Real Bosco di Capodimonte il 17 giugno per la regia di Bruno Fornasari: due adulti che hanno scelto di condividere la vita senza che questo li abbia salvati dall’impossibilità di conoscersi, ri-conoscersi e capirsi e che Ann, con il suo “dobbiamo parlare”, costringe al dialogo. Peter e Ann sono una coppia borghese dall’intimità spoglia, scarna, come spoglia e scarna è anche la scenografia: solo una lampada, la poltrona e il poggiapiedi di Peter, compongono il salone, spazio in cui lui si trincera e in cui si muovono gli attori, tra i quali non c’è quasi mai contatto fisico. Michele Radice (Peter) e Valeria Paternò (Ann) si muovono sul palco senza mai sfiorarsi, in un ballo sfuggente, quasi come se il regista volesse sottolineare la distanza tra i loro mondi. Il conflitto coniugale rimane sempre sul piano verbale, in un climax di battute dall’ironia sempre più amara e disperata. Lo scambio tra i due è serrato, alle risposte disorientate di Peter si contrappongono quelle sarcastiche, piccate e sempre più provocatorie di Ann che tiene le fila della discussione, fino a quando, proprio all’apice della tensione, i coniugi si riconoscono per la prima volta e restano sgomenti. È questo il momento in cui Peter esce di casa per continuare la sua lettura al parco. È proprio Peter il trait d’union tra i due atti, messi insieme a distanza di cinquant’anni dall’autore Edward Albee. È Peter che all’inizio del secondo atto, seduto a leggere sulla “sua panchina”, si imbatte in Jerry, a cui Tommaso Amadio dona un aspetto vagamente hippie, un giovane dinoccolato alla disperata ricerca di qualcuno a cui raccontare la sua mattinata allo zoo. Tuttavia, il racconto frammentato e le domande sempre più insistenti di Jerry innervosiscono Peter, che gli rimprovera di averlo importunato senza motivo e di non aver apprezzato lo sforzo fatto per ascoltarlo. È così che le stilettate metaforiche del primo atto si impregnano di violenza fisica. Proprio come animali allo zoo, i due ingaggiano un’accesa lotta per la conquista della panchina, unico elemento scenografico, tenendo lo spettatore in apprensione costante.
La scenografia ridotta ai minimi termini, il limitato ricorso alla musica, le luci impiegate solo per differenziare gli ambienti, esaltano la performance degli attori, vera forza del dittico insieme alla grande attualità del testo. Le voci, l’abilità muoversi tra il registro amaro, aggressivo o disilluso, senza che questo appaia forzato, rende gli attori credibili, e chi guarda non può che riconoscersi a turno nei personaggi.
Col suo scivolare lento verso la tragedia, A Casa Allo Zoo ci congeda con il ritratto di un’umanità isolata, a tratti animalesca, distante da se stessa e dall’altro, mero contenitore in cui proiettare i propri desideri o come elemento conflittuale utile per affermare se stessi.

 

Daria Del Prete
Master di II livello in Drammaturgia e cinematografia
Università degli Studi di Napoli Federico II