Due verità parallele e inconciliabili tra loro, due realtà opposte che vivono contemporaneamente nella stessa donna finiscono per dilaniarne la mente, l’anima, il cuore. L’amore, quello per Giasone, dal quale, in fondo, Medea non riesce a disintossicarsi. La consapevolezza dell’abbandono quindi il dolore vivo e pulsante che sferza le sue viscere.

Ecco i due motivi che portano la protagonista verso un’inevitabile follia.

La salvezza, la speranza, mai mostrate in scena, risiederebbero nel negare una delle realtà accettando l’altra e le conseguenze che ne deriverebbero: la scelta è tra un amore umiliante e sottomesso e un dolore lancinante che porta alla solitudine e all’abbandono.

Ma Medea, che porta in grembo il frutto dell’amore di quel marito che l’ha abbandonata e tradita, non vuole e non può accettare nessuna delle due soluzioni e, così, qualcosa in lei si rompe e la razionalità sfocia in una lucida follia.

Da qui prende le mosse la messinscena.

La dualità che tormenta l’animo della protagonista emerge da alcuni particolari, piccoli gesti e parole che affermano nello stesso istante un sentimento e il suo opposto: le scarpe rosse che indicano sensualità e seduzione, ad esempio, sono ai piedi della protagonista nel momento in cui la donna si scontra con il ritorno di Giasone, una discussione che abbraccia rabbia e passione, dolore e amore, sentimenti pericolosamente confinanti nell’animo umano che talvolta si confondono l’uno con l’altro. Così ad uno schiaffo ben assestato sul viso del legittimo marito seguono baci e l’amplesso amoroso che però non basta, non rimedia all’irriducibilità del dolore, dell’abbandono, all’orgoglio ferito di una donna che, in ultima istanza, rappresenta la forza barbara della natura.

E se nelle note di regia si può leggere che «

[Medea] è una barbara che non riconosce altra autorità se non quella del proprio istinto, per questo si attacca disperatamente al concetto di libertà. Per lei è rassicurante pensare di essere libera, di poter scegliere il proprio destino, di poterlo fare e disfare con le proprie mani. La sua appartenenza a un gruppo familiare o di classe o di nazione o di religione limita la sua presunta libertà, perché Medea si sente straniera ovunque. La sua tragedia consiste nella difficoltà di mantenere coscienti le sue pulsioni primitive, lottando disperatamente perché non si trasformino in regole da rispettare», c’è da dire che questi aneliti di libertà non si mostrano con evidenza durante la rappresentazione. È lei, sì, che decide il proprio destino e quello di suo figlio, così come è vero che attraverso il suo agire si libera dall’arbitrio degli eventi, ma queste sue azioni paiono scaturire più dal dolore e dalla pazzia che da un’irriducibile senso di libertà.

Allora, per intendere le parole di Emma Dante, autrice e regista, è necessario scavare appena sotto la superficie: Medea è l’unica autentica forza vitale in un paese sterile di vecchie comari vestite di pepli neri, uomini travestiti da donne (difatti gli attori che interpretano questi personaggi sono tutti di sesso maschile) che sognano gravidanze impossibili e che ciarlano, spettegolando tra loro nella cornice di un sud che appare sempre più profondo, immerso nell’arretratezza di una mentalità maschilista e umiliante e che fa da cornice a tutta la vicenda.

Questa società arretrata costituisce il vero limite, l’oppressione alla quale si fa riferimento: sottomissione, accondiscendenza, perdita della dignità. Ma Medea non appartiene a quella società, Medea è diversa da quel gruppo di comari che fa da sfondo e, quindi, giustamente si ribella a qualsiasi tentativo di assoggettamento: in questo sta il suo essere barbara, la sua naturale genuinità. Di contro, la consapevole strumentalizzazione del proprio corpo per perpetrare la vendetta appare sì barbaro, ma non naturale: è calcolo, freddo, spietato e cinico in quanto la protagonista si sottopone volontariamente all’umiliazione del concedersi al vecchio re per i propri scopi.

Ad ogni modo, la lucida follia straripante della donna rischia in più occasioni di far passare in secondo piano il non trascurabile dettaglio che Medea è in primo luogo madre infanticida, limitando la carica tragica dell’opera. Ma se la gravidanza ed il tormento che pure deve aver accompagnato la protagonista per lunghi mesi paiono quasi oscurate nella prima parte della rappresentazione, la tragicità della vicenda irrompe sulla scena nel momento del dubbio, nell’istante in cui la determinazione alla vendetta vacilla, quando i piani elaborati per così tanto tempo potrebbero passare in secondo piano: è la scena nella quale Medea parla alla sua prole con tutto l’affetto e l’amore di una madre. Ora, in quel momento, qualsiasi personaggio, qualsiasi madre sarebbe sul punto di rompersi, di crollare: la mente e l’anima non possono sostenere uno strazio di quella portata. Medea no: è il suo momento di massima lucidità, quello di massimo dolore, è il tempo in cui si presenta nella propria piena umanità. Perché l’anima di Medea è già in frantumi, la sua determinazione è massima ed è votata al proprio dolore, lì è rivolta, un incessante ascolto che non lascia tregua ma che pare fermarsi per un attimo, e solo uno, quando stringe tra le braccia il proprio figlio.

Complementari alla vicenda risultano le litanie dei fratelli Mancuso, suggestioni che rendono bene l’atmosfera cupa e straziante della tragedia, compensano quel tormentato passare del tempo non rappresentato in scena, ma sotteso.

Così, se la rappresentazione strappa perfino più di un sorriso nelle prime battute, la messinscena termina significativamente con una frase che racchiude, in sintesi, l’essenza del dolore e dell’abbandono che hanno scatenato la tragica follia di Medea: «Aspetta di essere vecchio per piangere davvero»

 

 

Massimiliano Mottola