Daniela Campana, Master in Drammaturgia e Cinematografia – Università degli Studi di Napoli Federico II
Arte incantevole o stravagante razionalità? Illusoria magia o visione onirica? Che cos’è “La Tempesta”? In fondo non è altro che un’invenzione fantastica ma anche metodica; magica e chimerica. Ed è proprio così che Luca De Fusco porta in scena, nella suggestiva cornice del Teatro Grande di Pompei, l’opera che segna l’addio al teatro di William Shakespeare.
In un’isola immaginifica e personale, che in questa rilettura “defuschiana” ha le fattezze di una biblioteca/regno dai colori cupi e grigiastri, prende vita “La Tempesta”, spettacolo che per oltre 90 minuti è chiamato a catturare l’attenzione di un pubblico che, numeroso, si appresta ad essere spettatore di un dramma tutto incentrato sulle fantasie di Prospero. Nell’opera, e così nella messinscena, è la forza creativa del demiurgo – Eros Pagni ne sostiene del tutto il carattere, tingendo di colori ombrosi le sfumature vocali e le espressioni – a creare l’azione: il mago evoca una realtà fittizia, ne muove i fili e obbliga gli altri personaggi ad agire secondo la propria volontà. E così fa con Ariel, suo fedele servitore, e con Calibano: nient’altro che suoi alter ego, impersonati entrambi dalla convincente Gaia Aprea, la quale indossa una maschera con il volto del loro “padrone” e si fa spirito benigno e maligno contemporaneamente.
Luca De Fusco si muove senza troppa difficoltà nel testo scespiriano, che conserva quasi interamente, anche se sceglie di tagliare e unire alcune scene e di inserire l’uso del napoletano in quelle dedicate a Trinculo (Alfonso Postiglione) e Stefano (Gennaro Di Biase), ricreando in quei momenti una “Tempesta” di eduardiana memoria.
Regista sagace che non lascia nulla al caso, De Fusco affida non solo alle installazioni video (di Alessandro Papa), ma anche ai costumi (curati da Marta Crisolini Malatesta insieme alla scenografia) una precisa funzione scenica: e dunque se i nemici di Prospero (Alessandro Balletta, Paolo Cresta, Carlo Sciaccaluga, Francesco Scolaro, Paolo Serra, Enzo Turrin) indossano abiti che non hanno una precisa identificazione storica (vanno dal ‘500 al ‘900), a significare che la brama di potere che quei personaggi figurano non ha epoca, per contro vediamo Miranda (Silvia Biancalana) e Ferdinando (Gianluca Musiu) candidamente vestiti di bianco, paradigma della loro purezza d’animo. E ancora. Decide di inserire diversi riferimenti alle opere di Shakespeare, facendo sì che Antonio affermi che la coscienza è come l’onore per Falstaff e Stefano dichiari di essere Macbeth.
Infine, lo spirito di Giunone (Alessandra Pacifico Griffini), le melodie intonate da Ariel (musiche originali di Ran Bagno) e il finale corale restituiscono a questo spettacolo un’atmosfera da music-hall hollywoodiano, che Prospero dirige come un perfetto direttore d’orchestra. Tuttavia, la vera conclusione della “Tempesta”, al debutto nazionale nell’ambito della rassegna Pompeii Theatrum Mundi (Sezione Progetti Speciali del Napoli Teatro Festival), è affidata alle parole dell’epilogo del demiurgo che, malinconico, destituisce le sue facoltà magiche e, rivolgendosi direttamente agli spettatori, chiede «che la vostra indulgenza mi liberi dalla mia poesia».