Feroce, brutale, atroce e sanguinario, questo fu Tito Andronico, il generale romano nato dalla penna di William Shakespeare, che ritornato a casa, dopo dieci anni in guerra, pensava di poter dimenticare chi fosse, e come un qualunque Mattia Pascal cambiare vita, dedicando il resto dei suoi giorni alla normalità, lontano dalla ferocia che contraddistinse i suoi anni da conquistatore.
La tragedia, adattata da Michele Santeramo con la regia di Gabriele Russo, messa in scena al Teatro Bellini è la contrapposizione tra passato e presente, è l’esperimento di come sia impossibile fuggire a quel destino a cui ognuno, con le proprie azioni, si condanna.
Tito, amaramente, scoprirà che è più semplice piegare interi eserciti al suo volere, conquistarne i terreni e asservirne i popoli piuttosto che cambiare la propria vita.
La corona reale pende al centro della scena, l’imperatore di Roma è morto e i figli – Saturnino e Bassiano – si contendono il trono, mentre il popolo non ha pensieri che per il generale Tito.
Stanco di combattere, di spargere sangue, di mettere a ferro e fuoco il mondo, il generale Tito, finalmente, torna a casa, con se porta cinque prigionieri (la regina Tamora, tre suoi figli, il suo amante Aronne) e un desiderio.
I prigionieri non sono uomini normali, Tito deve, quasi per volontà divina – quindi senza crederci veramente – uccidere l’ultimogenito della regina Tamora per vendicare, la morte in guerra, di alcuni  suoi figli. Dopo di ciò, il suo unico desiderio è quello di ritirarsi a vita privata, di diventare una “persona normale”.
Ma non può esserci normalità quando il popolo ti sceglie come suo sovrano, e allora Tito si ostina,  respinge il trono e lascia che la dinastia faccia il suo fisiologico corso: sarà Saturnino – il figlio maggiore del compianto imperatore – a governare.
Ma la storia non ammette rifiuti, un trono respinto non ha lo stesso valore di un trono conquistato, ecco perché Saturnino intuisce che l’unico modo per non essere un subalterno di Tito è quello di affrontarlo e allora rifiuta di  sposarne la figlia Lavina – come lo stesso Tito avrebbe voluto – per sposare la schiava Tamora, l’unica persona che avrebbe potuto incutere timore una volta ottenuto il trono di regina.
Tamora non aspettava altro per vendicarsi su tutta la famiglia di Andronico. Farà violentare Lavina dai suoi due figli, ne farà tagliere la lingua e le mani, affinché non possa parlare ne far segno. Lo stupro è stato reso in scena in maniera forte e violenta con i due attori, dalle mani lorde di sangue fino agli avambracci, che scalciano su una grata di ferro, illuminata di rosso, con al centro Lavina sdraiata e legata come un capretto che ad ogni colpo sussulta.
A fare da contraltare, lontano da quella violenza, c’è Tito, seduto su una poltrona, che reclama a tutti i costi una vita normale, e solo quando armai è troppo tardi, con la famiglia dimezzata, tornerà ad essere il generale Tito, tornando all’unico presente che può avere, manifestazione di quel passato sanguinario che riaffiora. Come per analogia, anche gli attori sembrano essere intrappolati nella storia, tanto da non poter distogliere le proprie azioni dal corso immutabile degli eventi, incapaci di immaginarsi un altro finale.
Ecco, che la vendetta di Tito cala ancor più cruenta sulla regina, ne ucciderà prima il figlio concepito con Aronne, poi sarà la volta degli altri due – i carnefici di Lavinia -, con il loro sangue farcirà una torta per offrirla al banchetto regale. Intanto otto fusti di alluminio, ai margini del palcoscenico, iniziano a drenare sangue (vino), da otto pompe trasparenti, che scorre sulla scena fino a essere raccolto in una piscina sotto la grata, proprio dove venne violentata Lavinia e dove adesso giacciono esanimi i figli della regina, mentre lei, ignara, continua a mangiarne le viscere e a berne il sangue della vendetta che ha la stessa matrice del sangue dei figli di Tito e di tutto quel sangue sparso e che ancora si spargerà. 
Giovanni Negri


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