DI EDUARDO SCARPETTA
ADATTAMENTO E REGIA CLAUDIO DI PALMA
CON GIOVANNI ALLOCCA, CHIARA BAFFI, ANGELA DE MATTEO, MASSIMO DE MATTEO, RENATO DE SIMONE, ANTONIO ELIA, VALENTINA MARTINIELLO, PEPPE MIALE, ALFONSO POSTIGLIONE, FEDERICO SIANO
SCENE LUIGI FERRIGNO
COSTUMI GIUSEPPE AVALLONE
AIUTO REGIA PEPPE MIALE
ASSISTENTE ALLA REGIA MANUEL DI MARTINO
COPRODUZIONE 
ENTE TEATRO CRONACA VESUVIOTEATRO 
SGAT (SENZA SRL)
TRADIZIONE E TURISMO – TEATRO SANNAZARO 

 

CAPODIMONTE – CORTILE DELLA REGGIA
21, 22 GIUGNO ORE 21.00
DURATA 1H+40MIN
DEBUTTO ASSOLUTO

Lo spettacolo
Scarpetta porta in scena con cinismo quell’avvertimento del contrario che per Pirandello era la comicità. Dice di farlo solo per “l’amato pubblico” che assiste ai propri vizi e se ne sente ristorato. La giocosa spietatezza di Scarpetta reintroduce la catarsi del teatro. Ne il medico dei pazzi uno “straniero”, un babbeo, il cafone Sciosciammocca precipita nel mondo di città che lo circuisce e spiazza. É così che le legittime ma inesauste ambizioni dei cittadini finiscono per apparirgli come pericolose follie. Sottile satira di costume? Macché! È solo per riderne. La denuncia dei nostri vizi è un calembur, l’affanno delle nostre aspirazioni un intrattenimento. Triste per cui assolutamente divertente.

Note di regia
“ … V’ ‘o vvoglio di’ pe’ scrupolo ‘e cuscienza: io scrivo ‘e fatte comiche d’’a ggente… E a ridere, truvate cunvenienza? … Nun credo!”
Questo chiariva Eduardo nel ’49 in una sua breve poesia e, in questo sapiente ed accorato monito, operava una implicita rivisitazione della eredità artistica ricevuta dall’altro Eduardo: Scarpetta. La scrittura di quest’ultimo si era infatti fondata su un’esasperazione più “deliberatamente cinica” di quanto avrebbe poi inteso fare il figlio; cinica perché assolutamente poco incline a contemplare quell’amarezza con cui sempre De Filippo volle guardare e raccontare i vizi e gli spropositi degli uomini. Scarpetta, dal canto suo, osservava e riportava in scena senza “sentimento” quell’avvertimento del contrario che Pirandello definiva essere la comicità. Il contrario alla regola, alla legge, all’estetica, alla grammatica, alla logica risultava agli occhi di Scarpetta congeniale esclusivamente alla creazione di meccanismi scenici che producessero il riso. Lo dichiarava sempre, a chiusura d’ogni sua commedia: lo aveva fatto per soddisfare l’amato pubblico. E forse per questo, paradossalmente, il pubblico se ne sentiva ristorato. Aveva assistito sulla scena alle proprie istrioniche buffonerie, alle proprie tristi miserie, ai propri potenziali sfottò in danno di un malcapitato, ai propri strafalcioni lessicali, all’impresentabilità dei propri vestiti e ne trovava convenienza, ne aveva riso… catarticamente. La spietatezza senza compassione di Scarpetta riproduceva così l’antica funzione del teatro: un’occasione di purificazione collettiva.

Ne Il medico dei pazzi questo disincanto divertito raggiunge probabilmente l’apice più significativo. Il meccanismo che si inscena è un gioco di specchi deformanti la realtà. Lo straniero, il babbeo, ‘o cafone ‘e fora, Sciosciammocca precipita nel mondo di città che lo circuisce e spiazza. I desideri, le ambizioni dei cittadini si mostrano nei loro accessi più convinti ed è facile per uno sguardo estraneo leggerne gli accenti controversi come stravaganze assolutamente folli. L’animo virgineamente fuori registro di Felice scopre involontariamente, e non senza ridicoli patemi per lui, le quotidiane ossessioni dei “normali”, ne sbugiarda inconsapevole l’inconsistenza. Sembra una satira profonda di costume, forse lo è implicitamente, non certo nella grammatica di scena. Quella è strutturata meravigliosamente per riderne, per riderne e basta. Noi la seguiamo rinfrancati: la denuncia dei nostri vizi è un calembur, l’affanno delle nostre aspirazioni un intrattenimento. Triste per cui … enormemente divertente.

La messa in scena
Occorre riconoscere che in taluni casi le scelte registiche rispondono a quel fenomeno di transitorietà creativa (quando va bene) che prende il nome di suggestione: un’insinuazione sotterranea, un’induzione a volte anche arbitraria. Nel caso de Il medico dei pazzi, per conseguire le ragioni che hanno spinto allo studio della sua messa in scena, la suggestione ha avuto nome: filodiffusione. Una innovazione tecnologica che arriva in Italia a fine anni ’50 e che determina il tentativo di convertire molti luoghi pubblici, relazionati per lo più al concetto di cittadino come cliente, ad occasioni di piacevole rilassatezza. Alberghi, lidi balneari, negozi, ma anche studi professionali, uffici ricreano ambienti pacificanti attraverso la trasmissione continua di musica a basso volume e in gran parte carezzevole. Una colonna sonora perpetua e sottile il cui andamento muove la necessità di riposare gli animi, di metterli a proprio agio. Animi, invece, all’epoca per nulla propensi all’adagio e agitati piuttosto da un vortice di nuovi interessi quotidiani in cui disinvolto disimpegno ed affannoso arrivismo andavano entrambi assumendo la connotazione del vizio. Una frenesia che porta i segni di un ritmo prevalentemente cittadino a cui la rarefazione della provincia paesana opponeva resistenza inconsapevole. Una discrasia musicale di tempi che evidenziava uno scarto profondo di usi e linguaggi fra i centri e le periferie. Un’ultima frattura prima del processo, neppure lento, certamente inarrestabile dell’omologazione. Ecco! In fondo è tutta qui la sproporzione di identità fra Felice Sciosciammocca da Roccasecca e gli altri (davvero tutti, anche sua moglie). Ecco le ragioni delle sue sorprese, delle sue paure, del suo disorientamento. Ecco, di conseguenza, i motivi della sua comicità: scaturiscono dalla sua inopportunità linguistica, estetica, emotiva. I tic compulsivi, i tentativi di accreditamento sociale dei cittadini che incrocia, pur plausibili, gli sembrano immotivati e folli; capaci di condannarlo ad una sorta di buffa e dolente solitudine. Ecco, infine, le ragioni per rimodulare e ricollocare luoghi e linguaggi della commedia nella fine degli anni Cinquanta accompagnandoli, a questo punto quasi inutile dirlo, dai suoni lontani della filodiffusione.

 

 

GALLERIA FOTOGRAFICA

ph Ivan Nocera – Ag Cubo