regia Geppi Gleijeses
Paese: Italia | Lingue: italiano
Teatro della Villa Comunale – 18-19/06/2008
Teatro Grande di Pompei – 22/06/2008
creazione per il Napoli Teatro Festival Italia
produzione Napoli Teatro Festival Italia
Ditegli sempre di sì è uno dei più importanti titoli della drammaturgia eduardiana. Scritto nel 1927, il testo intreccia agli echi ricorrenti da Il medico dei pazzi e Le 99 disgrazie di Pulcinella suggestioni nobili da Enrico IV e Il berretto a sonagli, che testimoniano di un Eduardo folgorato dai Sei personaggi in cerca d’autore del 1923. Fin dalle prime commedie, valga per tutte l’esempio di Ditegli sempre di sì, Eduardo insiste sulla necessità di ritrovare un linguaggio efficace e appropriato: «c’è la parola adatta, perché non la dobbiamo usare?» ripete Michele, il protagonista della commedia; mentre Luca Cupiello, rivolgendosi alla moglie e alla figlia che parlottano tra loro, conclude sconsolato «niente, niente, è un altro linguaggio». Parole che ingannano e parole autentiche: questa è la dicotomia del linguaggio e la scintilla del conflitto. Ditegli sempre di sì si inscrive nel genere della pochade scarpettiana contraddistinto da intrecci complicati, intrighi ed equivoci, che raggiungono una soluzione prevedibile e tranquillizzante alla fine della commedia. Il protagonista Michele Murri è un pazzo vero, «che è fissato sulle parole, e dice che la gente non parla con le parole appropriate, crea degli equivoci e fa dei pasticci». Quando esce dal manicomio sembra perfettamente «a posto»: cortese, attento, affabile. Eppure prende tutto troppo sul serio: se la sorella zitella dice che le piacerebbe sposare il vicino di casa, corre subito a raccontare in giro di questo matrimonio; se un amico di famiglia giura che farà pace col fratello solo da morto, ecco che si affretta a mandare un telegramma con la dolorosa notizia; se un vicino dà del pazzo a Luigino, un giovanotto che corteggia la figlia, Michele si precipita a cercare di tagliare la testa al povero innamorato, perchè la testa, dice lui, è il luogo dove s’annida la pazzia. La coerenza del povero matto, la sua allucinata coerenza, finisce inevitabilmente per riportarlo in manicomio. Ma la sua pazzia è senza furore, candida e pietosa, insieme; si impenna solo quando, con una non velata allusione al clima di quel periodo, cinque anni dopo la marcia su Roma, viene prospettata la decapitazione del “diverso” e dell’“emarginato”.