DIREZIONE ARTISTICA E DRAMMATURGIA ALEXANDRE ROCCOLI
COLLABORAZIONE ALLA DIREZIONE ARTISTICA, DRAMMATURGIA E INTERPRETAZIONE ROBERTA LIDIA DE STEFANO
COMPOSIZIONE MUSICALE E COLLABORAZIONE ALLA DRAMMATURGIA BENOIST BOUVOT
COLLABORAZIONE DRAMMATURGICA SÉVERINE RIÈME
COSTUMI DARIO BIANCULO
CREAZIONE LUCI LUIGI DELLA MONICA
PRODUZIONE ASSOCIATA ESPACE DES ARTS, SCÈNE NATIONALE DE CHÂLON-SUR-SAÔNE, A SHORT TERM EFFECT
COPRODUZIONE BONLIEU SCENE NATIONALE D’ANNECY, LA MÉNAGERIE DE VERRE, FONDAZIONE CAMPANIA DEI FESTIVAL – NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA
CON IL SOSTEGNO DI INSTITUT FRANÇAIS D’ITALIE, TEATRINGESTAZIONE
PALAZZO REALE – CORTILE DELLE CARROZZE
29 LUGLIO ORE 21.00 (PROVA APERTA)
30, 31 LUGLIO ORE 21.00 DURATA 1H
Di Grazia continua la ricerca sulla trance e gli stati di coscienza alterati mescolandosi alle passioni immaginarie di “un’Italia con un corpo aperto”. Alexandre Roccoli con l’attrice, cantante e musicista di origine calabrese Roberta Lidia De Stefano, nello spettacolo Di Grazia, firmano a due mani un ritratto di una donna plurale, attivista del suo tempo spesso in trasformazione.
Per questo progetto, Roccoli ha radunato attorno a sé oltre alla plasticità vocale di Roberta Lidia De Stefano, la sua fedele squadra: Séverine Rième e Benoist Bouvot, musicista-compositore.
Di Grazia, alla maniera di un’autopsia, cerca di riaprire quelle ferite di storie di donne attraverso canzoni antiche cantate, inghiottite, gridate in diversi dialetti dell’Italia dal sud, conducendo dal mondo antico verso un mondo futuro, dove il corpo diviene dissociato in un mondo digitale.
La lenta catarsi propria del teatro può operare nuovamente grazie a questo “teatro anatomico di passioni”.
Nel corso della messinscena di Di Grazia sarà proiettato il video
MAMA SCHIAVONA
DIREZIONE ARTISTICA ALEXANDRE ROCCOLI
CONSULENTE ALLA DRAMMATURGIA MARZIA MAURIELLO
CONSULENTE ARTISTICA VALÉRIA BORRELLI
CON STEFANIAZAMBRANO, TARANTINA, LOREDANA ROSSI, CRY MASCIA
FONICO GUIDO MARZIALE
COPRODUCTION INSTITUT FRANÇAIS D’ITALIE, FONDAZIONE CAMPANIA DEI FESTIVAL – NAPOLI TEATRO FESTIVAL ITALIA, LA MÉNAGERIE DE VERRE
LA COMPAGNIA A SHORT TERM EFFECT È SOSTENUTA DALLA DRAC AUVERGNE-RHÔNE- ALPES, DALLA REGIONE AUVERGNE-RHÔNE-ALPES E DALLA CITTÀ DI LYON
Il film è una lenta litania che procede e trasforma la tessitura del canto per Mama Schiavona, la Madonna dei Femminielli di Montevergine. Il corpo e la voce diventano dissonanti fino a creare un’enfasi ipnotica. Il progetto Di Grazia, in cui si intrecciano storie diverse create per curare varie ferite, tra cui quella della mancanza di una madre, prevede la proiezione del film che, come in una sorta di loop ipnotico, dipinge varie figure della storia dei Femminielli di ieri, oggi e domani.
JEAN- FRANÇOIS PERRIER INTERVISTA ALEXANDRE ROCCOLI E ROBERTA LIDIA DI STEFANO
Come si colloca il progetto Di Grazia nel suo percorso artistico?
È una nuova tappa in un processo di creazione che è iniziato nel 2014 con il solo Longing e si è sviluppato poi con Weaver Quintet nel 2015. Questi due spettacoli, sotto forme molto diverse, avevano come origine l’interesse che nutro per il fenomeno del tarantismo – che si incarna nelle donne “tarantolate” -, che è esistito nel Sud dell’Italia per decenni.
In che cosa consiste questo fenomeno?
Le donne tarantolate erano famose per essere state pizzicate dalle tarantole che le mettevano in dei stati di convulsioni, dolori, a volte anche risate frenetiche. Per guarirle non c’era altro modo che la musica e la danza, le famose tarantelle, che mettevano i loro corpi in stati violenti, incontrollati e ritenuti liberatori, prima che andassero a chiedere – portate dagli abitanti della città – l’aiuto di San Paolo e San Pietro nella chiesa di Galatina, avendo solo questi due santi il potere di liberarle da questa sorta di possessione che le abitava.
Come è arrivata ad interessarsi a questi fenomeni che sono limitati ad una zona geografica ristretta?
Sono nato in Francia ma i miei genitori sono di origine siciliana e calabrese, e ho passato la mia infanzia tra questi due paesi visto che venivo in vacanza ogni anno in Italia. Le mie prime emozioni artistiche sono molto legate per esempio alla frequentazione delle chiese e delle cerimonie religiose che vi si svolgevano. Ero circondato da donne, le mie nonne, zie, cugine, e sono stato anche cullato dai canti religiosi o profani che mi circondavano. Queste donne, che vivevano ovviamente in un mondo in cui il patriarcato era dominante, mi hanno molto colpito per il loro coraggio e il loro impegno.
Questi canti sono ancora vivi oggi?
Alcuni sì, ma molti appartengono al passato, al mondo antico. Sono le fondamenta della costruzione dello spettacolo, visto che ne abbiamo ritrovati alcuni che ancora oggi sono di impatto sull’inconscio collettivo italiano e che appartengono a repertori diversi. Canti delle donne tarantolate, canti delle lamentatrici, canti delle lavoratrici, ma anche canti di uomini legati alla loro professione, canti dei pescatori, canti dei carrettieri, canti dei minatori che chiedono anche loro delle grazie particolari, scritti nei vari dialetti di questo Sud Italia, dalla Puglia alla Calabria: il napoletano, il calabrese, il griko-salentino, l’albanese, fino al siciliano ovviamente. Questi canti sono lamenti religiosi o canti d’amore, sempre canti di appelli, di richieste di grazie varie ma anche di sollievo. Dei canti di grandissima plasticità vocale che permettono, per via della ripetizione, di raggiungere uno stato di corpo in trasformazione.
Questi canti saranno interpretati a cappella oppure accompagnati con musica?
L’interprete mentre canta suonerà la zampogna, uno strumento tradizionale, fatto di un corpo di capra rigirato, al quale vengono aggiunte delle ancie e una canna di bordone, possiamo paragonarlo a una cornamusa. Userà anche un sintetizzatore Korg che permette anche qui di lavorare il respiro e la voce in un registro più futuristico.
Lei parla di questi corpi di santi e sante o di icone del cinema italiano?
I corpi sui quali ci appoggiamo sono figure archetipali, che costituiscono per molti la “sindrome” di madre Dolorosa. Li attraversiamo per meglio sottrarci a loro e pensare il nostro mondo del 2019, anche il mondo futuro, come un mondo che avrebbe fatto esplodere le potenze del patriarcato per ritrovare alla fine la matrice di un mondo futuro che includerebbe i generi maschili e femminili, un mondo chimerico, diretto verso un divenire tecnosapiens, quello digitalizzato ed estatico, sul quale lavoro dall’inizio.
A chi si riferisce?
Per gli uomini penso ai guaritori San Paolo e San Pietro, per le donne a Santa Lucia o Santa Agata, che hanno subito, nel terzo e quarto secolo dopo Cristo a Catania e Siracusa, un martirio violento nel loro corpo per aver rifiutato il matrimonio che le avrebbe costrette a rinunciare ai loro voti di castità. Violenze estreme, occhi strappati, seni tagliati, stupri in serie, prima di essere bruciate vive o seppellite vive. Penso anche a Santa Chiara di Montefalco, di cui si è voluto sapere, facendone la dissezione, da dove veniva questa santità, questo stato di grazia che le era riconosciuto mentre era in vita. Sophia Loren rimane per noi un’icona insieme ad Anna Magnani e Silvana Mangano, che hanno incarnato sul grande schermo, in modo diverso, delle donne brutalizzate dalla vita ma combattenti, esplosive, trascendenti. Dei corpi moderni che si ricollegano a quelli delle “Mater Dolorosa” della grande tradizione pittorica cattolica. Abbiamo attraversato questo progetto insieme a Roberta Lidia di Stefano partendo proprio da questi archetipi, per intraprendere il viaggio nell’interiorità di questo corpo femminile diventato un corpo spettrale in divenire.
Roberta Lidia di Stefano, lei è attrice, musicista e cantante. È un percorso tradizionale in Italia per le attrici?
No, non è un percorso tradizionale, ma è la mia “natura”. Ho studiato nella Scuola di Paolo Grassi a Milano, e nella mia formazione artistica, anche i miei maestri hanno sempre capito il mio complesso bisogno di non sentire i limiti.
Qual è oggi lo spazio per le canzoni popolari, tradizionali o contemporanee, nell’ambiente culturale italiano?
Oggi, le canzoni popolari vivono autenticamente nella memoria di alcune donne e di alcuni uomini più anziani, a volte si trasmettono di generazione in generazione. Altre volte, alcune canzoni sono rievocate durante le sagre di paese più o meno popolari, preservando degli aspetti che appartengono al pubblico e al privato.
Che cosa l’ha sedotta nel progetto Di Grazia che le ha proposto Alexandre Roccoli?
Sento di avere un immaginario molto simile a quello di Alexandre. Sono una donna del Sud cresciuta con i racconti della sua nonna Filomena. Abbiamo sempre cantato nella mia famiglia e suonato anche. La nostra forza è la forza della terra; dalla pancia di una cornamusa che ti riporta in dei luoghi ancestrali e senza nome, dei luoghi interiori: le processioni, la Vergine Maria, la violenza dei nostri luoghi di origine. E poi, dall’altra parte, un’icona di donna combattiva, giovane e anziana nello stesso tempo; una giovane donna emancipata, forte, pronta a battersi per i suoi diritti, per la sua famiglia. Una sorte di proto-femminista, libera, politicizzata, di genere fluido, piena di sensualità.
Sul palcoscenico, suonerà uno strumento molto particolare, la zampogna, che necessita di un grosso lavoro sul respiro. In che cosa questa pratica modifica il suo lavoro di attrice?
Per fortuna ho un buonissimo orecchio musicale e anche un buon respiro. Ma questo sicuramente non basta: serve esercizio, allenamento, curiosità. La zampogna è una pelle caprina ed è quindi sensibile ad ogni respiro, all’umidità, alla posizione. Questa pancia di aria racchiude tutta la solitudine dei pastori che hanno portato le pecore al pascolo, che avevano solo il pane, il formaggio e un coltello. Un vuoto duro, quindi, condiviso con tutti i poveri, con coloro che lavorano nelle miniere, con i migranti. C’è nostalgia, c’è tutto questo in questo suono lacerante.
Attraverso il suo percorso nello spettacolo, ha la sensazione di interrogare l’”identità femminile”? In che modo?
Se parlo di identità mi è difficile distinguere il maschile dal femminile. Il genere è veramente un concetto fluido per me; di questi tempi si tratta piuttosto di interesse sociale e politico. Mi sento molto fortunata di appartenere al genere femminile, ne vado fiera. Credo che siamo culturalmente abituati ad avere, coscientemente o incoscientemente, dei riferimenti erotici, culturali di natura maschili e al peggio, macisti. Con Alexandre condividiamo una sensibilità forte ma emotivamente fragile. Nel senso più nobile del termine. In questo senso, l’impronta femminile è più viva che mai e vive in questo spettacolo come la nostra piccola rivolta artistica. Il fenomeno delle donne tarantolate, e quindi possedute, che appartiene alla memoria antropologica dell’Italia del Sud, mescola strettamente il canto e la musica che abitano questo corpo femminile in quello che si può descrivere come uno “scatenarsi delle passioni”.
Quale sguardo ha su ciò che potevano – o ancora possono – sembrare nell’immaginario collettivo, e in quello maschile in particolare, le rappresentazioni di donne streghe, indemoniate, indemonianti e quindi pericolose?
È difficile pensare oggi alla passione e alla possessione in modo astratto. Parliamo di streghe sul rogo, di donne costrette a diventare suore o a rimanere zitelle, senza amore, senza attenzioni. Donne che sono esplose perché le loro famiglie le hanno soffocate. Soffocavano i loro istinti. Delle donne respinte, spesso maltrattate e costrette a vivere una vita che non hanno scelto. Il canto, la “trance” della musica erano gli unici sfoghi leciti in determinati momenti dell’anno. Le donne sono spaventose, sono sempre state spaventose e anche oggi lo sono. Non posso non pensare a Hevrin Khalaf, l’attivista curda uccisa in Siria qualche giorno fa. La forza della donna passa attraverso canali diversi dai “muscoli”. Canali sconosciuti, differenti; e la diversità fa ancora paura. Le donne forti si ignorano, si uccidono a vicenda, devono disintegrarsi e dietro a questi massacri, mi dispiace, ma ci sono sempre uomini. Siamo artisti non possiamo chiudere gli occhi. Non possiamo fare finta. Questo è molto grave.
Esistono ancora oggi, in questo Sud Italia di cui è nativa visto che è calabrese, delle manifestazioni che possono assomigliare al Tarantismo?
Sì, in forma ridotta e soprattutto durante le processioni dei santi. La Calabria è una terra ancora “dura”, ed è una cattiva cosa sotto alcuni punti di vista. Ma per altri aspetti, questa è una buona cosa: conserva una memoria storica pura, nella buona o cattiva sorte, antropologicamente credo sia la regione d’Italia rimasta più “selvaggia”, più disarmante nella sua bestialità; più amara nella bellezza dei suoi mari e delle sue montagne. I rituali sono spesso autentici, commoventi, realizzati da piccole comunità. Questi fenomeni sono pseudo-religiosi, e di conseguenza succede che il fanatismo di alcuni piccoli gruppi “mafiosi” che corrono per ottenere la “Grazia”, si manifesti con offerte abbondanti di denaro. Anche in questo ambito, le frontiere tra il bene e il male diventano più confuse con il sudore, i fuochi, il suono della fisarmonica e il vino che animano la vita notturna.