Inizia e finisce su una spiaggia, Sotto il Vesuvio niente di Peppe Lanzetta, portato in scena da Pasquale De Cristofaro alla Galleria Toledo, per il Napoli Teatro Festival.
Una spiaggia al confine del mare e della vita, sulla quale si ritrovano personaggi (o forse sono solo anime in pena) malassortiti dalla sorte, fino alla fine. L’esuberante trans, lo zingariello con la canzone sempre pronta, il vecchio Bebè di un sorpassato variété, il marinaio che ha girato mille porti; la Maria di mille canzoni e mille poesie: amata, sospirata, tradita, lasciata, delusa, e giunta infine sola – come tutti – su quest’ultima spiaggia.
Un video di animazione di Vincenzo Lauria fa da sigla di apertura allo spettacolo. Ma la vera partenza (un po’ enigmatica) è affidata ai movimenti e ai passi di una danza quasi rituale, che termina in un urlo muto.
La voce dello zingariello (un bravo e sicuro Romolo Bianco), sulle note dell’inseparabile chitarra, tenta di tessere un filo impossibile. Perché tra una canzone e l’altra – dalle piccole perle napoletane a una rivisitazione di Vecchio frack – puntualmente qualcuno prende, prepotente, la scena.
Dietro di loro, la città forse non c’è più. Ma dentro di loro, della città, è rimasto intatto il dolore. Un dolore che però è anche passione. Ricordo. E insieme, voglia di partire. Come Marittone (un esuberante Antonello De Rosa), che è nata in un basso della Pignasecca, ma sogna di andare a Lugano; almeno a morire, per far schiattare l’amica Soraya, nata al piano nobile.
E mentre questi personaggi improbabili (perché più che personaggi sono anime, uscite dalle pagine di Patroni Griffi o di Viviani, dai versi di canzoni e sceneggiate, supplicanti della Madonna di Gomorra) si raccontano e cantano, la città-porto è invasa come sempre, come in un eterno dopoguerra, da ogni sorta di etnia; dagli africani ai terroristi dell’ISIS, che comunque non fanno più paura dei cinesi: che vengono a rubarci il lavoro, anche se «quando mai, qua abbiamo lavorato?».
In certi momenti, l’impronta di Lanzetta nei testi è così forte che sembra di sentirlo in scena: segno che la sua scrittura ha lasciato qualcosa nella letteratura di questi ultimi decenni. Suggestivo, verso il finale, il sogno di Viviani affidato allo Zingariello, che segna l’incontro sul filo della magia tra la Napoli di ieri e quella di oggi. Città di ricordi, di canzoni, di lunghe beckettiane attese. Di una storia che non è finita. Anche se sotto il Vesuvio non è rimasto niente.

Giuseppe Pesce
Master in Drammaturgia e cinematografia – Università degli Studi di Napoli Federico II