Nel complesso monumentale di Santa Maria di Donna Regina, sito in uno degli angoli più suggestivi di Napoli, nella calda serata di martedì 12 luglio 2016, va in scena lo spettacolo Madre di pietà – Amore e morte all’origine della cappella Sansevero.
La rappresentazione teatrale è tratta dall’omonimo libro di Beatrice Cecaro; la regia è affidata a Riccardo De Luca; le musiche originali sono opera di Paolo Coletta; i costumi sono di Annalisa Ciaramella. Il cast attoriale è molto nutrito: affiancano il regista Mimmo Calopresti – qui nelle vesti di interprete – lo stesso Riccardo De Luca (regista / attore), Antonella Romano, Annalisa Renzulli, Lucrezia Delli Veneri, Tina Femiano, Gino Grossi, Francesco Marino e Salvatore Veneruso.
I personaggi si muovono in maniera “geometrica” sull’«altare-palcoscenico» della mastodontica chiesa, le cui navate sembrano incombere minacciosamente sui loro destini. Una «geometria variabile» che tende a disorientare lo spettatore, non offrendogli alcun appiglio o certezza sul dipanarsi della matassa. E allora la scena si sposta dal sagrato al corridoio centrale della chiesa, costringendo gli spettatori a riposizionare il loro sguardo, che dapprima è proiettato verso l’altare, dove stazionano quattro personaggi – due maschili e due femminili – disposti sul palco in modo «parallelo», dopodiché la visione si concentra in uno spazio lontano e misterioso, che sembra richiami oscuri presagi. La morte irrompe sulla scena, portando con sé angoscia e sgomento.
La storia è incentrata sulle origini della Cappella della potentissima e oscura famiglia dei Sansevero, in un periodo in cui Napoli è attraversata da tradimenti, inganni ed efferati omicidi.
Siamo alla fine del Cinquecento: il perfido e potente Gesualdo da Venosa uccide in modo vile e truculento la moglie fedifraga Maria d’Avalos, che coglie in flagrante adulterio, nel talamo nuziale, assieme all’amato Fabrizio Carafa.
Sembra quasi che il regista-attore De Luca si diverta a mischiare le carte del suo racconto, dove i repertori comportamentali risultano, molto spesso, poco funzionali rispetto allo specifico contesto in cui ci si trova. Capita che una musica rock interagisca con un ballo cinquecentesco, oppure che una canzoncina italiana sia seguita da un canto bucolico: in tutto ciò i comportamenti degli attori diventano volutamente poco informativi nei confronti della platea.
Anzi, quando tali comportamenti dovrebbero essere socialmente disapprovati, finiscono col radicare un’immagine che soggioga le coscienze: una violenza subdola che supera lo stesso delitto e finisce col condurre l’individuo in uno stato di alienazione, così come accade nel caso della nobildonna Maria Maddalena Carafa, che reagisce all’uccisione del suo «amato-traditore» Fabrizio, ordinando alla sua fida Ortensia di eseguire i suoi voleri di carità e di preghiera.
Il regista sovverte le modalità di relazione e di confronto tra i personaggi che abitano la scena, lasciando agli spettatori degli interrogativi di fondo. Siamo in una Napoli, in cui i potenti vivono in un benessere fittizio e sono avvolti in una gigantesca spirale di bisogni che nessuno di loro riesce compiutamente a soddisfare: Fabrizio e Maria si amano alla follia e le loro piroette danzanti rappresentano un’inequivocabile metafora della loro fuggevole passione; Gesualdo da Venosa, uomo colto e raffinato, amante della musica e della vita mondana, non riesce ad ottenere l’amore di sua moglie ed accecato dalla gelosia dà sfogo ai suoi istinti più bassi, spezzando la favola dei due giovani amanti; Maria Maddalena Carafa si crogiola in litanie e suppliche, alle quali accompagna azioni caritatevoli, per colmare una vita mai vissuta realmente; Adriana Carafa della Spina, aristocratica madre del giovane Fabrizio, riscopre la preghiera e la carità, solo dopo la tragedia dell’uccisione di suo figlio.
Angeli e demoni popolano l’altare di Santa Maria di Donna Regina, tra mostruosi delitti – l’uccisione di Fabrizio e Maria – e tremende sventure – la morte del piccolo Luigino, figlio di Maria Maddalena. Uno scenario in cui, tra inganni, sotterfugi ed ipocrisie, non sembra esserci spazio per una reale “pietas”: quella «pietà michelangiolesca» raffigurata «impietosamente» all’inizio della rappresentazione.
Ma gli inganni, i raggiri e i delitti non possono fornire un ancoraggio logico alle scelte di chi li compie. Tali situazioni si realizzano in luoghi e spazi delimitati ed è solo uscendo da questi «limiti» che può maturare un’autentica “pietas”.
Adriana Carafa della Spina riesce ad uscire da questi «limiti» e a diventare la “madre di pietà”: l’atroce sofferenza per l’assassinio del figlio Fabrizio, accompagnata da un reale «percorso mistico», attraverso il quale è condotta da Maria Maddalena Carafa, le conferiscono le “stimmate” della “pietas”. «Perché niente è più potente dell’amore e della pietà. Niente è più potente del dolore di una madre».
Fiorentino Palumbo