di Alejandro De Marzo – Master in Drammaturgia e cinematografia, Università degli Studi di Napoli Federico II

Nadia Brustolon e Vincenzo Preziosa, con i volti anneriti come spazzacamini essendo infilati in due comignoli antivento a pappagallo, interpretano i due personaggi scritti da Riccardo Caporossi, che firma anche la regia di questo spettacolo. Lo fanno con bravura e dedizione alla causa, quella della storia surreale che impersonano. Non si sa come Madì e Modì (questi i nomi rispettivamente della donna e dell’uomo) siano collocati lì nei comignoli, da quanto e perché. Di certo però non sono gli allegri operatori delle cappe fumogene della favola di Mary Poppins. Bloccati in questo scenario ci offrono un dialogo apparentemente semplice ma in realtà denso e profondo, parlandoci del loro disarmante isolamento e abbandono da quell’umanità cui credono di appartenere. Diversi i momenti in cui la scena è movimentata da piccole azioni e gesti (tirar fuori un ombrello, raccogliere con una asta di metallo un gomitolo di lana stranamente uscito da un terzo comignolo, occuparsi di un bambolotto di pezza anch’esso apparso per caso a quel terzo comignolo), e significativi quelli in cui il vento li interrompe dal conversare perché con forza muta la direzione dei comignoli. La loro vita cui da spettatori assistiamo – e di cui ci parlano ‘a rate’ appunto – è venata da un non-sense forse troppo prevedibile per poter esser apprezzata nella originalità della stupenda scenografia dei tetti urbani in cui accade. Questo l’unico limite di uno spettacolo che tuttavia scorre per freschezza e per i contenuti esistenziali metaforizzati. L’ulteriore decodifica dei segni e delle parole teatralizzati, che diventa quindi necessaria, richiede uno spettatore preparato che abbia fatto sua la lezione di un Ionesco, o del Beckett di “Giorni felici” cui questa piéce assomiglia. A questo livello, infatti, certe simbologie, analogie, interruzioni si dischiudono in tutta la loro ricchezza, trovano giustificazione, assumono funzioni altresì disappercepite e consentono di avvertire l’unitarietà del testo verbale.

C’è inoltre da sottolineare come, ad ogni modo, ad esser ‘ritmate’ dalla messinscena ne risultino di riflesso anche le disponibilità tensive degli spettatori, convenendo lo stesso senso di oppressione, di rassegnazione, di impotenza. E di speranza, che pur non manca. Anzi, sembra proprio il messaggio finale ottimista, l’invito sottaciuto a cambiare le dure sorti del gioco dell’esistenza mediante un filo cui appendersi per continuare a sopravvivere, e nel migliore dei casi grazie al quale riuscire a fuggire via. Madì e Modì scompariranno all’improvviso, dopo aver molto parlato delle loro storie, come fumo che un’ultima folata di vento disperderà nell’aria lasciandoci uno strano sentimento di nostalgia mista dopotutto a serenità. Restiamo cioè sollevati nell’assistere al raggiungimento della libertà dalla costrizione dei comignoli. Dati i presupposti drammaturgici, molta diventa a questo punto l’affinità di destino con le vite dei troppi ebrei che furono catturati e reclusi nei campi di concentramento nazisti, sfruttati fino al consumarsi del corpo per venir poi disfatti lungo i camini delle ‘baracche della morte’. Al contrario di quella brutta vicenda storica, questa piuttosto agisce quale un anticorpo al male sempre in agguato.