PRESENTAZIONE DEL CAMPANIA TEATRO FESTIVAL 2025
Dal 13 giugno al 13 luglio 2025 torna il Campania Teatro Festival, rassegna multidisciplinare di prestigio internazionale che giunge alla sua 18ª edizione, confermandosi tra gli eventi culturali più attesi sul territorio. Organizzato dalla Fondazione Campania dei Festival, diretta da Ruggero Cappuccio, con il sostegno della Regione Campania, il Festival presenta un ricco programma di oltre 150 eventi, tra cui 70 prime nazionali e internazionali e numerose co-produzioni.
Il tema di quest’anno, Battiti per la Pace, invita il pubblico a riflettere sul potere dell’arte e del teatro come strumenti di dialogo e veicoli di solidarietà tra culture e popoli in conflitto.
Il Festival coinvolge 7 teatri napoletani – Teatro Tedér/Teatro del Rimedio, Sala Assoli, Teatro Nuovo, Teatro Mercadante, Teatro Trianon Viviani, Teatro Sannazaro e Teatro Politeama – estendendosi a scenari di eccezionale valore storico e paesaggistico, come il Palazzo Reale di Napoli, il Teatro Grande del Parco Archeologico di Pompei, Villa Campolieto di Ercolano, Borgo culturale di Foresta – Tora e Piccilli e il Fiordo di Furore.
L’edizione 2025 si articola in nove sezioni disciplinari: dalla sezione Internazionale alla prosa Italiana, fino ai concerti live di Musica, ai simposi della sezione Letteratura e alle proiezioni di Cinema. Tornano le Mostre e la sezione Osservatorio, dedicata alle compagnie emergenti, insieme a SportOpera, che esplora il legame tra arte e sport. Tra i Progetti Speciali, spicca “Il Sogno Reale. I Borbone di Napoli”, ideato da Ruggero Cappuccio: un ciclo di cinque letture drammatizzate ispirate a personaggi, storie e ambienti dell’epoca borbonica con testi scritti per l’occasione e interpretati da grandi nomi del teatro italiano.
Il programma potrebbe subire variazioni, scopri tutti i dettagli sul sito campaniateatrofestival.it
Oltre l’Io Oltre il Mio
Quando i mistici orientali e occidentali si occupano di ciò che va male nella vita delle singole persone, di ciò che va male nelle dinamiche politiche degli Stati, di ciò che va male nei processi naturali del pianeta Terra, finiscono sempre per regalarci una riflessione che contiene un invito: “Come potete sperare di ottenere effetti migliori se prima non cambiate le cause?”
Da questo pensiero nasce un interrogativo? Le guerre rientrano nel concetto di causa o nel concetto di effetto? Con ogni evidenza, il ricorso alle armi per risolvere una controversia tra popoli è un effetto. Gli scontri che da millenni hanno punteggiato la storia sociale della guerra sono stati attivati da migliaia di esseri umani il cui cervello si è tristemente sintonizzato sulla strategia della sopraffazione. Un cervello, più un cervello, più un cervello, hanno prodotto il sentimento della distruzione, radendo al suolo Sparta, Cartagine, Sarajevo, Gaza.
Una terribile teoria fondata sullo spargimento del sangue del nemico ha tinteggiato di rosso il Mediterraneo, ha colorato i prati di Waterloo. La teoria del sangue è stata innalzata come una bandiera di civiltà, modulando l’orgoglio di Patria in forme di attacco, di annessione, mimetizzandosi con l’eleganza linguistica della dicitura missione di pace, sublimandosi nella più perversa declinazione di guerra santa.
Alcune tonnellate di materia grigia contenuta in altrettante tonnellate di crani hanno prodotto, nel corso dei secoli, uccisioni, incendi, bombardamenti, stragi.
Un pensatore illuminato come Jiddu Krishnamurti si domanda: “Ma il cervello, è stato creato per questo?”
È questa la finalità di quel meraviglioso organo che organizza e coordina i nostri movimenti, che conserva i ricordi affettuosi di nostro padre e nostra madre, dei nostri amici, dei nostri amori, dei nostri giochi da bambini, dei meravigliosi paesaggi, dei film che abbiamo visto? È questa la finalità del cervello? Determinare la guerra?
Evidentemente l’umanità nell’espressione delle sue maggioranze ha usato male il proprio cervello. Le religioni e le filosofie hanno salvato alcune esigue minoranze. E, paradosso tra i paradossi, difficilmente queste minoranze hanno gestito il destino dei popoli, degli Stati, dei conflitti.
Gli individui, in larghissima parte, sono invece quotidianamente in guerra. Desiderano il potenziamento dell’ego. Inseguono l’ingrandimento del possessivo. Io sono, io sono, io sono. È questo il mantra più praticato nella storia dell’umanità. E come se non bastasse, celebra l’accoppiamento con il suo mantra gemello: questo è mio, questo è mio, questo è mio.
L’egoicità e la possessività generano il concetto di divisione. Se sentiamo dire io sono questo e questo è mio, dobbiamo considerare che gli altri non sono quell’io e quella tale cosa non può essere anche loro. La divisione è già avvenuta. È perimetro. È chiusura delle menti e delle geografie.
La competitività è in agguato. Gli individui confliggono nel contesto del loro mondo lavorativo, delle loro famiglie, della società cui appartengono. Senza educazione sentimentale, senza la costruzione paziente del sentimento della pace, a partire dalle azioni quotidiane, non ci sarà pace nei processi politici planetari.
Il grande neurologo Eric Kandel, premio Nobel per la Medicina nel 2000, nel suo magnifico libro l’Età dell’inconscio, esamina i rapporti tra arte, mente e cervello. Per alcuni versi e solo per alcuni versi, il nostro cervello possiede proprietà comuni al funzionamento del computer. Il cervello è uno spettacolare archivio in cui sono state caricate memorie prenatali, memorie familiari, memorie sociali che si articolano in altrettanti files. Il nostro cervello è stato, cioè, programmato. Sappiamo bene che il computer si può sprogrammare e riprogrammare. Sappiamo bene che anche il cervello è sprogrammabile e riprogrammabile. Lo si può fare con l’aiuto della filosofia, della scienza, dell’arte, della spiritualità, della psicoanalisi, della meditazione, dell’autoanalisi.
Gli elementi cardinali per una riprogrammazione costruttiva del cervello sono senz’altro le parole e il loro rapporto con le vibrazioni energetiche.
Viviamo in un’epoca in cui troppo spesso le parole sono violente, veicolano significati violenti e agitano vibrazioni violente. Sui giornali leggiamo titoli come: Tizio asfalta Caio. Oppure: Schiaffo a Sempronio. E ancora: X attacca Y. Y distrugge X. Come si può vedere, l’esortazione alla guerra è già nata in una frase: prevalere, prevalere, prevalere. È questo il comandamento imperante.
Battiti per la pace è allora un invito a battersi pacificamente con noi stessi, a trovare le pulsazioni cardiache giuste, per addomesticare le nostre tentazioni egoiche e i nostri pregiudizi.
Ci possono aiutare le parole della poesia, quelle che producono vibrazioni benefiche, quelle che curano e ci curano. Nessuno può pensare alla necessità della guerra leggendo Pavese, Montale, Ungaretti.
Ci può aiutare il Fedone di Platone, dove Socrate cerca la verità sull’immortalità dell’anima senza voler prevalere sui suoi allievi.
Ci può aiutare il Teatro con la grazia di parole che diventano corpi sonori e ci curano con grazia. È il teatro il luogo per eccellenza dove molti cervelli lavorano e si impegnano per un unico fine: l’armonia dei sentimenti, l’accettazione serena del dissenso, l’abbattimento dell’io e del mio.
È il teatro con i suoi attori e il suo pubblico, l’organismo che incarna alla perfezione il credo di un indiano meridionale come Krishnamurti: “La verità non è tua o mia: se lo fosse sarebbe una falsità.”
(Ruggero Cappuccio)