Una linea sottile in cui si dubita di tutto. Parafrasando Proust, potremmo definire il dramma di John Ford, Peccato che fosse puttana, andato in scena alla Galleria Toledo, una storia sul dubbio e sull’amore come tortura e presenza. Il dramma di Ford, adattato dalla accorta traduzione di Nadia Fusini, elabora i concetti di amore incestuoso, amoralità, seduzione e possesso sulla dicotomia anima-famiglia.
Essa si esplica in una messa in scena che accende le luci sulle psicologie dei due fratelli-amanti, come adesione a una ribellione senza ritorno. Il testo, rappresentato per la prima volta nel 1632 e considerato fondamentale nella produzione di Ford, in età elisabettiana, marca e rappresenta una certa precarietà psicologica laddove il possesso prende sembianze di un gioco pericoloso e che determinerà il tragico destino dei due fratelli amanti, Giovanni, interpretato da Gianluca D’Agostino, e Annabella, Alessandra D’Elia.
L’amore amorale, magnanimo e cosmico, che abbraccia i due fratelli in una morsa di intrecci e perdizioni esistenziali, si consolida in un secondo momento come piacere costitutivo dell’umano, meditabondo, opprimente. In un mondo di confessioni e segreti, c’è il dubbio sulla reciprocità di una passione la quale legittima quest’amoralità che dilania i due personaggi principali. Eppure resta la contraddizione, lasciata a rappresentare se stessa, e la menzogna verso il mondo esterno a questo amore, per cui tutto rimane paternalistico, insignificante di fronte a quella seduzione riprovevole che non tarda d’emozioni e inquietudini.
La scena, scarna e cosparsa di presenze, diretta da Laura Angiuli, ben narra le sorti di una piccola società familiare cui è inutile disobbedire e che tuttavia si abbassa a mentire. Un’armoniosa recitazione perfeziona la scena come unione delle parti in una ostinata narrazione sul sacrificio dell’amore.
Emiliana Chairolanza