28 aprile 2014


Il Napoli Teatro Festival Italia è ormai una realtà consolidata nel panorama teatrale italiano. Con il numero delle sue prime, delle sue recite, dei suoi accrediti stampa, del suo budget, si è ormai affermato come la principale rassegna teatrale nazionale, il principale Festival che abbia il teatro di prosa e la danza come suo unico specifico.
Decliniamo questo tema in modo come al solito plurale e vediamo quindi mescolarsi registi teatrali di prima grandezza specializzati in repertorio classico, veri e propri Maestri, che tornano da noi per la seconda volta, come Lluis Pasqual, Andrei Konchalovsky, Maurizio Scaparro; registi di grande livello internazionale, ma dal taglio meno classico come Alvis Hermanis o Rimas Tuminas; artisti di teatro sperimentale, veri e propri poeti del teatro off come Riccardo Caporossi, Enzo Moscato o Davide Iodice. Ma non mancano ovviamente i giovani, con presenze innovative che si confrontano con repertori classici o novità drammaturgiche. Non mancano nemmeno registi che hanno più affermato il loro nome nel cinema ma che mai hanno abbandonato il teatro come Roberto Andò. Ma non è ovviamente solo un festival di registi, pur credendo fermamente nel teatro di regia; siamo infatti curiosi di vedere uno dei maggiori attori del nostro tempo come Eros Pagni confrontarsi con una tradizione teatrale che gli è estranea, ma che molto ammira, come quella eduardiana. Sono personalmente felice di vedere Michela Cescon affrontare nuovamente un progetto produttivo ambizioso non più solo nei panni di produttrice ma anche in quelli di attrice. E che dire del meraviglioso modo di recitare degli attori russi, che esprimono una delle maggiori scuole teatrali del mondo, spesso accostata a quella napoletana che qui, con il repertorio eduardiano o con Lello Arena e molti molti altri sono ovviamente degnamente rappresentati? Sono particolarmente felice anche di aver inserito in programma il Caffè Nemirovsky, un ciclo di letture dedicato a Irène Nemirovsky, scrittrice a me particolarmente cara, meritatamente annoverata ormai tra i grandi interpreti del Novecento.
Festival plurale come sempre, quindi, e Festival basato sui teatri napoletani ma anche, come è ormai tradizione e come prevede lo statuto stesso della Fondazione, su luoghi incantevoli del golfo di Napoli. Quest’anno torniamo nel sito di Pietrarsa e ci torniamo convinti di non averlo ancora consumato, di poterne mostrare ancora potenzialità e motivi di fascino.
Un festival esprime ovviamente il suo tempo e quindi racconta coi propri temi il senso di disagio, di fine di un’epoca che attraversa i nostri giorni. Lo fa, per cominciare, con il Focus più corposo, quello dedicato ad Anton Cechov e alla cultura russa e immaginando, anche attraverso la mia regia del Giardino dei ciliegi, un collegamento sottile e nascosto tra le figure del teatro cechoviano e il Mezzogiorno. Entrambi quei mondi sembrano non aver saputo affrontare la modernità, entrambi sembrano quasi aver saltato il Novecento arrivando direttamente all’epoca post-moderna. La frequentazione napoletana di Konchalovsky, nel maggio scorso, mi permise di confrontare questa mia vecchia idea della napoletanità di Cechov con un esperto, che mi incoraggiò a lavorare su questa mia antica intuizione. Ma non è ovviamente solo per le assonanze tra Cechov e il Sud che il Festival presenta ben sei Cechov (tre in russo, due in italiano, uno in spagnolo realizzato da un giovane regista argentino) ma perché il grande autore russo racconta la struggente fine di un’epoca che muore in modo anti retorico e quasi comico, struggente ma non melodrammatico. Non siamo anche noi in questa situazione? Il misto di forzata allegria e tormentata malinconia tipica di Cechov non caratterizza anche il nostro tempo?
Se quindi un Focus parla malinconicamente di una fine, l’altro che viene dedicato all’infanzia come tema e non necessariamente come pubblico, parla invece dell’inizio della vita. Uno spettacolo riguarda addirittura la gravidanza ma anche gli altri (sia un giocoso Pinocchio spagnolo che racconta la grande fiaba italiana col linguaggio del circo, sia il misterioso spettacolo di Hermanis su una vicenda, come quella di Kaspar Hauser, avvolta tutt’ora nel mistero e che rappresenta uno degli spettacoli più insoliti del Festival) parlano di storie che iniziano al contrario di quelle cechoviane, che narrano sempre di qualcosa che termina.
Cerchiamo insomma di dire che non possiamo non sentirci malinconici, ma non possiamo d’altra parte non volere sentirci ottimisti.
Il terzo perno del Festival è il cantiere d’arte teatrale che si ripresenta al pubblico dopo il grande successo dello scorso anno e che rinnova l’alleanza strategica tra il Festival e il Teatro Stabile di Napoli. Tre spettacoli vengono provati a Napoli immergendo gli artisti nel tessuto vivo della città. Il primo celebra l’anniversario eduardiano. La celebrazione è d’obbligo , e darà spazio anche ad una chicca di Francesco Saponaro, ma un Festival vive anche di curiosità, di proposte insolite. Mi sono chiesto un anno fa cosa sarebbe successo se avessimo affidato ad uno dei Teatri d’arte teatrale più gloriosi d’Italia, come quello di Genova, la messa in scena di un classico eduardiano che spero Sciaccaluga e Pagni affrontino con la stessa mano felice con cui lessero un altro grande testo naturalista di epoca non diversissima, come Morte di un commesso viaggiatore. Ovviamente Pagni si confronterà con tanti attori napoletani e non potrà non sentire il clima tutto speciale del Teatro San Ferdinando dove sarà allestito lo spettacolo. Spero che il risultato sia l’equivalente teatrale della nascita di un nuovo fiore.
Del Giardino dei ciliegi ho già detto e non mi resta da aggiungere che la compagnia, l’organico più stabile del Mercadante, sarà a disposizione del pubblico, essendo la più abituata all’affetto e all’interesse che ci viene manifestato durante le prove aperte.
Resta da dire di Finale di partita in cui uno dei migliori direttori d’attori viventi, come Lluis Pasqual, tenta un altro curioso mescolamento, quello tra la drammaturgia beckettiana con la clownerie napoletana.
Infine lo spazio che “testardamente” riserviamo alla danza. Uso questo avverbio perché la danza moderna sembra un genere in via d’estinzione nel nostro Paese. Mentre a Parigi quasi tutto il cartellone di un Teatro nazionale è dedicato alla danza moderna o in Israele ci sono spettacoli di danza moderna in città grandi e piccole, da noi questo genere, così vitale, così tipico del nostro tempo, sopravvive quasi solo in qualche festival e perfino grandi quotidiani non hanno più il critico di danza.
Aprire il Festival per il secondo anno con uno spettacolo di danza moderna è quindi un “testardo” atto di ottimismo nel futuro di questa disciplina. Quando presentammo per la prima volta la Vertigo Dance Company, la compagnia non era molto conosciuta. Eppure il successo di Null al San Ferdinando fu travolgente e ora i loro spettacoli saranno rappresentati al Lincoln Center e in Cina.
Sempre seguendo l’estetica del mescolamento, abbiamo inserito nella nostra squadra al Mercadante il loro musicista stabile Ran Bagno, che con le colonne sonore di Antigone ed Antonio e Cleopatra ha riscosso unanimi consensi. Ora anche Noa Wertheim, la coreografa stabile del gruppo, entra nella nostra squadra, curando i movimenti del nostro Giardino. Mi è sembrato quindi giusto che la compagnia inauguri il Festival con il loro più recente lavoro ed insieme completi la presentazione del proprio repertorio con Mana, lavoro storico non ancora visto a Napoli. Il pubblico del Festival esaurì in pochi giorni le recite dello scorso anno, costringendoci ad una rappresentazione straordinaria. Spero che gradisca questa piccola personale e che accolga con altrettanto entusiasmo l’arrivo a Napoli di Emio Greco, uno dei coreografi di grido della scena internazionale che continua a ricevere incarichi di prestigio all’estero, prima in Olanda e ora a quel Balletto di Marsiglia che ebbe come storico fondatore Roland Petit. Come si vede, la danza moderna in Italia ha protagonisti e pubblico: aspetta solo che lo Stato vi investa. Lo fa uno Stato piccolo e tormentato come il Kosovo (di cui ospitiamo l’atto di rinascita ad opera di Alessandra Panzavolta, che tanto bene ha fatto al balletto napoletano in questi anni) non si capisce perché non debba farlo anche l’Italia. Noi insistiamo comunque con ottimismo e d’altra parte è già un atto di fiducia investire ancora in cultura e in spettacolo in un momento così tormentato della vita napoletana, come la Regione Campania fa con la acuta fiduciosa razionalità di Stefano Caldoro e Caterina Miraglia. Il nome di Caterina mi fa di nuovo però spostare il pendolo del mio stato d’animo dall’ottimismo alla malinconia. Durante la preparazione di questa edizione, Caterina Miraglia ha dovuto lasciare la Presidenza della Fondazione Campania dei Festival, produttrice della rassegna. Se al successore Luigi Grispello mi lega un’amicizia trentennale, non posso non chiudere con un enorme grazie pieno di malinconia ad una persona che in questi anni è divenuta una amica personale, con la quale non sono mancati momenti di dissenso ma sempre in un clima di complicità, affetto, energia. Se il Festival è ancora vivo, se questa istituzione culturale meridionale che rappresenta un centro di eccellenza italiano è ancora in piedi, ciò si deve all’energia, al lucido ottimismo, alla grinta, alla rinnovata passione di Caterina, che ringrazio di tutto cuore e che spero ci resti vicina come assessore e consigliere. Ma anche alla camera di commercio che sostiene il festival con entusiasmo.

Luca De Fusco