di Alejandro De Marzo – Master in Drammaturgia e cinematografia, Università degli Studi di Napoli Federico II

Non delude l’assegnazione del Premio Ubu 2018 come migliore progetto speciale all’opera lirico-teatrale “Otello Circus” (ispirata alle opere di William Shakespeare e Giuseppe Verdi) riportata in scena dal Teatro della Ribalta e l’Orchestra AllegroModerato al Napoli Teatro Festival 2019.

La celebre tragedia shakespeariana viene ambientata stavolta in un circo – gli spettatori prendono posto infatti su gradinate attorno a uno spazio scenico circolare – dove Otello deve rappresentare la sua personale vicenda come condanna eterna e pena per l’eccidio dell’amata. Gli altri personaggi (Emilia, Cassio, Roderigo, Iago) assumono la parte degli altri mestieri del circo: acrobata, lanciatore di coltelli, equilibrista, domatore, etc., perpetuando il ciclico inscenarsi della giostra di sentimenti, fantasmi e rimorsi che via via li indebolisce e che invano possono tentare di interrompere. Questa brillante metafora circense aiuta lo spettacolo a non perdere mordente (come talvolta avviene per le rappresentazioni del dramma inglese) ed integra la spettacolarità dei ‘numeri’ variegati del tendone alla tragicità delle dinamiche psicologiche umane che fanno parte della storia che ben conosciamo.

Così che concretamente la delazione, l’inganno, la menzogna, gelosia, possessività e l’ambizione si rendono come gioco di magia, trucco di prestigio, capitomboli, lancio di coltelli, acrobazie varie. La riuscita rielaborazione teatrale si giova di una studiata integrazione di sottofondi e brani musicali estrapolati dall’Otello di Verdi, cui danno voce tre giovani cantanti di buona preparazione e talento. I vari passaggi della piéce scandiscono passioni e ambizioni del testo originale con una creatività frutto dell’autore e regista Antonio Viganò ma debitrice in qualche modo della ‘di-versità’ libera e genialmente unconventional dei giovani membri della compagnia. Gli interpreti presentano infatti il carico delle loro patologie e malattie invalidanti, che davvero arrivano a scomparire sotto l’effetto della loro bravura e dietro la magia del fare teatro, lasciando giudicare il pubblico per ciò che fanno e non preliminarmente per ciò che sono, in questo appunto aiutati dal dispositivo teatrale che di per sé è mediazione tra apparenza e verità, tra finzione e vita reale. È così allora che in molte scene si riesce a cogliere la poesia di una visione genuina e decostruita dalla vicenda efferata, usando con sapienza e funzionalità gli oggetti presenti (lampadario, altalena, sedia per leoni, naso da pagliaccio)

con l’esigenza psico-cognitiva che le persone con sindrome tipo down hanno di riasserire frasi, stati d’animo e gesti (esempio, tra gli altri, quello della scena della morte di Desdemona che è potenziata dal triplicarsi dell’azione). Colpisce in particolar modo, infine, l’energia che il cast ancora conserva al termine dello spettacolo, assieme a un evidente divertimento di cui si è giovato anche prima dello stesso pubblico, a riprova del legame proficuo tra gioia dell’esprimersi performativo e resa artistica, e di conseguenza tra qualità dell’allestimento e progressione civica dello spettatore teatrale.