Il Bellini è un teatro stabile sorto nel 1864. Venne rinnovato e inaugurato nel 1878 con una costruzione in stile romantico eclettico, la quale fu progettata dall’architetto Carlo Sorgente sul modello dell’Opéra Comique di Parigi, da simpatie estetiche francesi del fondatore, l’avvocato napoletano barone Nicola Lacapra Sabelli. Le realizzazioni di pitture e decori sono Pasquale Di Criscito. Nel 1962 divenne cinema, fino a quando fu acquisito da Tato Russo che diede, nel 1988, una svolta significativa e il ritorno alla dignità dovuta alla struttura e al valore della memoria, con una serie di ottime stagioni teatrali.
È proprio in questa suggestiva cornice che è andato in scena “Mentre aspettavo”, replicato il 26 e il 27 giugno e presentato nella programmazione di NTFI; autore del testo Mohammad Al Attar, regia Omar Abusaada, con Amal Omran, Mohammad Alarashi, Nanda Mohammad, Fatina Laila, Mouiad Roumieh, Mohamad Al Refai, scene Bissane Al Charif, luci Hasan Albalkhi, video Reem Al Ghazzi, musica Samer Saem Eldahr (hello psychaleppo).
Le attese possono avere tanti epiloghi; un mancato appuntamento, la gioia di un evento, le ansie, le paure di un cambiamento.
Le sensazioni subito spingono appunto lo spettatore verso ansie, paure, tensioni di un’attesa, che si instaura nel crescendo della violenza, la guerra civile, la instabilità di una Nazione che, con altri Paesi di un’area Mediorientale, così vasta, segna la fine di un’epopea delle speranze, del cambiamento, delle aspirazioni democratiche e di modernizzazione. Soprattutto la gioventù, tradita e fagocitata dalla guerra e dalle ripercussioni che essa porta, vive le tragedie che feriscono la sfera individuale e familiare, portano la perdita delle identità, lo smarrimento, la distruzione delle speranze, la morte.
Una famiglia, in scena, colpita dalla tragedia della guerra; gli eventi insidiosi non faranno altro che portare disgregazione e incomprensioni, rinunce tra loro, rivendicazioni tra madre e figlia. La scenografia è di sintesi concettuale e, avvalendosi del segno virtuoso della illuminotecnica di teatro, diviene esperienza di una distribuzione originale degli spazi della recitazione.
Attribuisce ai volumi cubature scatolari in settori, soprattutto su verticalizzazioni della struttura scenica, un impalcato, dove sono puntuali i tavolati e i personaggi portano in evoluzione i momenti del clamore o violento o della speranza o di ritorno alla vita o delle proiezioni reali, tratte da momenti vissuti. Scenari urbani, veri, dove gli schieramenti di fazioni scendono in campo, sono “incisi” della regia che restano visivamente presenti come tecnica e modellazione dei contenuti.
La tortura è l’altra argomentazione cocente del dramma; la descrizione dei luoghi, brutali, la sofferenza delle sevizie fisiche e psicologiche, la lotta per la vita, ed è proprio questo ritorno, dopo la fuga dalla prigionia, a dare un senso nel credere alla speranza. In ogni individuo che non si abbandona all’oblio c’è riscatto verso la normalità.
C’è una sottesa tensione interpretativa degli attori, che andrebbe stemperata, per rendere meno dispersiva parte della recitazione. Sono vicino alle speranze di pace e al messaggio che quest’opera rappresenta nella sua immediata veridicità e sofferta denuncia dei fatti storici e politici che stanno accadendo in Siria.
Giuseppe Crescitelli Racconto