di Roberta Verde – Master in Drammaturgia e Cinematografia, Università degli Studi di Napoli Federico II

Cosa rappresenta Madre Courage? Quale forza misteriosa e sinistra la porta ad affrontare le molteplici tragedie che la colpiscono senza mai perdere la voglia di ricominciare? Il personaggio brechettiano di Madre Coraggio è una fulgida rappresentazione delle contraddizioni dell’essere umano di fronte al disastri provocati dalla guerra. I soldi, i beni materiali, l’ossessione per il possesso e il mantenimento di qualcosa – nel caso di Madre Coraggio il carro, unica fonte di sussistenza – sono il pensiero costante che annienta l’animo e i sentimenti della povera gente. La guerra distrugge le vite degli uomini ma questi a loro volta cercano di sfruttarla in una spirale di annientamento dalla quale è difficile uscire. L’eterno peregrinare di Anna Fierling e dei suoi tre figli Eilif, Schweizerkas e Kattrin tra la Polonia, la Svezia e la Germania durante la Guerra dei Trent’Anni è un cammino senza ritorno: i tre figli moriranno per via della guerra ma Madre Coraggio, col cuore ormai ridotto in pietra, continuerà assurdamente a desiderare che quel conflitto non finisca mai, perché solo grazie a esso può sperare di guadagnare qualcosa con il commercio. Nella versione diretta da Paolo Coletta, andata in scena presso il Teatro Nuovo il 14 e il 15 giugno scorsi, la magistrale e coinvolgente interpretazione di Maria Paiato, coadiuvata da dieci eccellenti attori, rende perfettamente questo personaggio dalle fosche tinte, pervasa di un amore materno che sfuma inesorabilmente nel desiderio di un riscatto economico. Madre Coraggio non si ferma davanti a nulla, nemmeno davanti alla morte dei figli che perderà uno a uno: destabilizzante ed estraniante esempio di figura materna, il pubblico assiste a una vicenda narrata con brutale franchezza, secondo le linee narrative proprie del teatro epico. L’elemento che maggiormente affascina e allo stesso tempo sconvolge lo spettatore è la scenografia, curata da Luigi Ferrigno. Un grande voragine scura simile a un buco nero infrange, scomponendola e deformandola, la continuità del grande specchio inclinato che caratterizza tutto lo spazio scenico. Ma a differenza del corpo celeste che silenziosamente tutto divora, il buco nero che si apre sul palco emette una voce, la voce di un narratore onnisciente, discreto e puntuale che introduce i vari sviluppi della vicenda. Una voce che si trasforma, nel dialogo finale con Madre Coraggio, in una voce di coscienza e di purezza, unica fonte di luce in uno mondo intriso di grigio cinismo. La componente cromatica è uno degli aspetti peculiari di questa versione del celebre lavoro di Brecht: tutto l’apparato scenico, compresi la maggior parte dei costumi e l’enorme specchio, sono scuri, grigi. Spicca in questa monocromia il rosso “vomitato” dalla voragine durante le battute della “voce”. L’inclinazione dello specchio consente agli attori di essere allo stesso tempo protagonisti e spettatori delle loro azioni biecamente opportuniste. Un gioco di rimandi visivi evidenzia la miseria umana da cui emerge solo l’anima candida e speranzosa della muta Kattrin (Ludovica D’Auria), l’unica che mestamente attende la pace e l’amore vero. L’atmosfera livida viene spezzata con puntuale ritmicità dagli intermezzi musicali ad opera di Paul Dessau, collaboratore di Brecht. Per chi non avesse avuto occasione di vederlo durante il Napoli Teatro Festival, si ricorda che lo spettacolo sarà nuovamente nel capoluogo partenopeo dal 19 al 24 novembre presso il Teatro Bellini.