di Monica Todino, Master in Drammaturgia e cinematografia – Università degli Studi di Napoli Federico II
Un testo notevole. Un autore che non delude mai e un ottimo regista. Mi viene da pensare semplicemente questo dopo aver visto Il silenzio grande, scritto da Maurizio de Giovanni per la regia di Alessandro Gassman, in scena al Teatro del popolo Trianon Viviani in prima assoluta per il Napoli Teatro Festival Italia. E gli attori non sono da meno. A partire dalla magistrale Monica Nappo, una cameriera sempre nel personaggio e mai sopra le righe, un eccellente Massimiliano Gallo, una bravissima Stefania Rocca e a seguire Paola Senatore e Jacopo Sorbini. Le musiche originali sono di Pivio & Aldo De Scalzi. Dagli abiti, scelti da Mariano Tufano, si comprende che l’ambientazione è verso la fine degli anni ’70. A fare da “sfondo” un velatino in proscenio: una rappresentazione onirica che attraverso immagini proiettate, viaggia indietro nel tempo.
Nel primo atto la scena si apre su una grande stanza adibita a libreria: libri ovunque catalogati secondo l’ordine “casualmente rigoroso” del protagonista: uno scrittore, ovviamente. Al centro del palcoscenico un divano, davanti al divano un vogatore. Si capisce subito che la stanza è il “tempio” del padrone di casa, dove trascorre giornate a scrivere romanzi e a non uscire quasi mai. Uno alla volta entreranno, alternandosi, prima la moglie, poi il figlio, poi la figlia. Dai dialoghi si apprende che la casa è in vendita e loro hanno il desiderio di parlare con lui come non hanno mai fatto prima. E gli parleranno, lo faranno aggressivamente, si sfogheranno con lui, gli confesseranno cose che in passato non hanno mai avuto il coraggio di dire. Ma lo faranno sempre senza contatto, senza quasi mai guardarlo negli occhi, quasi come se volessero sfuggirgli attraverso i ricordi. Ricordi che saranno proiettati sul velatino mentre loro saranno illuminati solo da un occhio di bue. E tra un’apparente verità e una reale finzione, racconteranno sia di loro stessi che del tempo “non” passato con lui; e sarà tale la malinconia che ad un certo punto si avverte da parte del protagonista un vero e proprio senso di abbandono. La cameriera, Bettina, entrerà sempre tra un familiare e l’altro e sarà lì, sempre pronta a dare la sua opinione su ciò che ha “sentito per caso”. Entra da un’altra porta però, lei è paziente, lo ascolta, gli suggerisce cosa dire, cosa fare. Diventa quasi una confessione dopo ogni scontro che il protagonista ha con il familiare di turno.
Nel secondo atto lo schema si ripete. Però questa volta i libri sono negli scatoloni e la libreria è completamente vuota. Assistiamo agli sviluppi delle storie narrate nel primo atto e dunque nuovamente si alterneranno i familiari anche per salutare un’ultima volta quella “grande stanza”. Però l’ultima, e non più la prima ad entrare, sarà la moglie. E sarà lei, con le sue parole a svelare ciò che lo spettatore si stupirà di apprendere. Un lavoro ben fatto, che porta lo spettatore ad immedesimarsi almeno in una delle storie narrate. Un testo davvero notevole, nello stile di Maurizio de Giovanni. «Questa storia -dice Gassman nelle note di regia – ha al suo interno grandissime sorprese, misteri che solo un grande scrittore di gialli come Maurizio avrebbe saputo maneggiare con questa abilità».
Molto piacevoli i saluti finali, dove viene proiettato solo l’occhio di bue che illumina l’attore e sul velatino compare il suo nome e il nome del suo personaggio.