Potremmo definire lo spettacolo “I Malvagi”, che ha inaugurato il 7 e l’8 giugno la sezione di spettacoli italiani del Napoli Teatro Festival Italia 2017, un nosocomio all’aperto. Il cortile d’onore del Palazzo Reale di Napoli ha ospitato una rappresentazione che ha visto sopraffare i propri suoni e le proprie voci da quelle degli esterni circostanti, in un risultato turbolento. Il disordine sonoro si è pero rivelato perfettamente congeniale alla natura dello spettacolo stesso, la cui regia del foggiano Alfonso Santagata ha cercato di pennellare schizzi sovrapposti di storie di dannazione, malattia, incurabilità morbosa.
La malattia dell’epoca di Fedor Dostoevskij, personaggio ombra dello spettacolo, era la febbre cerebrale: la sua e quella dei suoi compagni di lotta giovanile all’aristocrazia russa era una febbre psichica, animata da una forza pericolosamente vicina al nichilismo, posizione che rifiutava ogni valore tradizionale e sociale. La stessa febbre di cui si ammala Rodion Raskol’nikov, protagonista del capolavoro di reminiscenze autobiografiche di Dostoevskij “Delitto e Castigo”, che finirà come il suo autore russo ai lavori forzati, non per il proprio coinvolgimento in atti rivoluzionari bensì per un omicidio. Dostoevskij espierà così due volte i propri “peccati” giovanili, nella vita reale e in quella di carta da lui romanzata.
Il racconto registico di questa doppia espiazione sulla scena dei “I Malvagi” ha preferito porre l’attenzione non tanto sull’atto finale di redenzione di prigionieri come quelli descritti da Dostoevskij, quanto sulla descrizione delle atrocità sofferte da questi uomini. Il vecchio scrittore russo, interpretato dallo stesso Santagata, si aggira per il palcoscenico declamando estratti dall’altro testo autobiografico dell’autore, “Memorie dalla casa dei morti”, alternandosi a scene tratte invece dalle tristi pagine di vita di Raskol’nikov, interpretato da Tommaso Taddei. A questa alternanza si aggiunge un terzo livello di narrazione, quello della lotta progressista politica russa, portata in scena con proiezioni video di folle cittadine in bianco e nero, figure urlanti che corrono brandendo armi, musiche tonanti. Tre livelli narrativi sovrapposti in troppa ristrettezza di tempo e di azione, che finiscono col lasciare lo spettatore spaesato e orfano di una storia precisa da seguire e da comprendere.
“Il germe del carnefice si trova in ogni uomo contemporaneo”: un prete ortodosso cammina durante quasi tutta la durata della performance, mugugnando parole di dolore e dispensando incenso tra stanze in cui la malattia psicofisica imperversa. Un complesso di coordinate imprecise, che lasciano dello spettacolo un’agitazione malata, quasi come se il palco divenisse luogo di uno scontro fisico tra piani temporali diversi, tra anime folli, malvage, incomunicabili nella loro psiche condannata.
Serena Barbato