Un giurista (Fausto Russo Alesi) alle prese con la scrittura di un trattato di diritto processuale civile incontra nel parco un bizzarro personaggio (Giovanni Esposito) vestito da donna. Questi, pur avendo espiato l’intera condanna, è tormentato dal pensiero di non aver subito la giusta pena per un delitto commesso molti anni prima. Il racconto di Thomas Bernhard offre lo spunto alla riflessione del giurista – i cui momenti più controversi sono sottolineati dai vocalizzi di Simona Severini – che parte dai principi generali cari alla filosofia del diritto, da “ubi societas ibi ius, aut ubi ius ibi societas?”, equivalente a discutere se sia nato prima l’uovo o la gallina, ed arriva alle tematiche del processo. Cosa è il processo? Che senso ha il processo? È realtà o rappresentazione teatrale? Commedia o tragedia? Il giurista è ben consapevole della labilità del confine tra queste definizioni, così come non può non riconoscere che, nel processo, alla verità storica si può contrapporre la verità processuale, ossia quella che scaturisce dal dibattimento: in cuor suo sa che il trattato che sta scrivendo non riuscirà mai a raggiungere le risposte che cerca, ed all’inizio della pièce dice a sé stesso che appena finito lo brucerà. Nella seconda parte della rappresentazione – installazione, basata su scritti del giurista Satta, sotto l’incombente presenza di enormi fantocci di giudici in toga appesi alla facciata interna delle mura, quaranta personaggi entrano e riempiono l’ampia scena, che occupa metà del cortile del Maschio Angioino, formando otto quadri viventi, immagini delle varie forme di violenza, dall’ infermiera killer alle uccisioni di mafia, dallo stupratore all’ uxoricida, fissate nel momento in cui è commesso il delitto. Sono rappresentate le tre componenti del processo penale: accusa, difesa e giudice ma, come in una recita, si esprimono in playback e per frasi fatte o brocardi in latino; in scena sono presenti Voltaire, ma anche Socrate e Gesù, vittime di processi farsa: sulle parole del Vangelo di Giovanni emergono tutti i dubbi di uno dei più famosi giudici della storia, Ponzio Pilato, che per tutta la durata della presenza in scena continua a lavarsi le mani. Né manca il richiamo alle leggi di natura, con un cane lupo che ha appena sgozzato un agnellino, ed il gorilla giudice di Brassens – De Andrè che ripristina una giustizia sostanziale in modo totalmente inconsapevole facendo scempio del giudice giustizialista. Alla fine in attesa di giudizio restano insieme vittime e carnefici, accomunati dal senso di arbitrarietà che traspare in chi amministra la Giustizia.  Uno spettacolo che si pone interrogativi alti, su cui l’uomo riflette da millenni; eppure, al di là delle ottime prove attoriali di Esposito e di Russo Alesi, non riesce a stimolare nello spettatore il pathos partecipativo che ci si aspetterebbe da una messa in scena così articolata, complessa, piena di spunti evocativi su tematiche ancora oggi di attualità.

Domenico Davolos