“E’ giusto ripagare i malvagi con il loro stesso male”: è con questa frase lapidaria che Cilissa, la più anziana delle Coefore, incoraggia il protagonista dell’Orestea a consumare la sua vendetta ai danni della madre Clitemnestra, colpevole di essersi macchiata di adulterio e di aver ucciso suo marito Agamennone, il re di Argo. La seconda e la terza tragedia della celebre trilogia di Eschilo, dirette magistralmente da Luca De Fusco presso il “Teatro grande” di Pompei il 23 e il 25 giugno 2017, costituiscono, in effetti, un’apologia del perfetto “castigo” conseguente a un efferato “delitto”.
A inizio spettacolo le Coefore, cioè le portatrici di libagioni per i morti, si recano in corteo sulla tomba di Agamennone, seguite da sua figlia Elettra (Federica Sandrini). L’allestimento è essenziale: il palcoscenico è ricoperto di sabbia nera e attraversato da una passerella fatta di schermi sui quali scorrono luci e colori che cambiano a seconda delle suggestioni evocate dalle battute. Sullo sfondo, le porte della reggia di Argo sono separate da un led wall che proietta immagini lugubri: attorno solo frammenti di colonne a simboleggiare il degrado morale del regno.
Oreste (Giacinto Palmarini) vestito da soldato del primo ‘900, entra in scena dalla cavea, richiamando l’immagine di un reduce di ritorno da una guerra lontana: non appena Elettra riconosce suo fratello inizia tra loro un affannoso rincorrersi senza mai toccarsi. L’affetto che li lega, infatti, non può colmare la loro irriducibile distanza: lei ha scelto di implodere nel suo dolore, mentre lui è determinato a vendicarsi.
Di chiara matrice freudiana la rappresentazione dell’incontro/scontro tra Oreste e Clitemnestra (Mascia Musy): strettamente avvinghiati, quasi a simulare un amplesso, essi rotolano sulla sabbia cercando di ottenere una posizione di supremazia sull’altro/a. L’uccisione della donna viene poi rappresentata dalla passerella che si tinge di rosso al passaggio del suo corpo brutalmente trascinato.
Ne Le Eumenidi, Oreste, scampato alla ferocia delle Erinni, deputate a lavare con il sangue i delitti compiuti tra parenti, viene processato dal “Tribunale della Giustizia” istituito da Atena (Gaia Aprea). Quest’ultima, la cui divinità viene suggerita da un abito futuristico, invoca una decisione da parte dell’assemblea degli Argivi, cioè gli stessi spettatori della pièce ripresi e visibili su due led wall presenti sulla scena: la sentenza è visivamente rappresentata come un “televoto”. I giudici popolari risultano equamente divisi nella loro scelta, quindi Atena decide di fare da “ago della bilancia” affermando – per la prima volta nella storia – il principio giuridico dell’ in dubio pro reo. Oreste viene quindi assolto con il compiacimento di Apollo (Claudio Di Palma) – che tanto aveva perorato la sua causa – e tutti i personaggi presenti si abbandonano a un canto liberatorio che strappa al pubblico l’ultimo applauso a scena aperta. Straordinaria pièce, scandita da suggestivi brani musicali (Ran Bagno) e valorizzata da un’estrema cura nella recitazione e nell’allestimento (scene di Maurizio Balò, costumi di Zaira de Vincentiis e luci di Gigi Saccomandi).

Laura Cascio