di Luigi Angelone – Master in Drammaturgia e cinematografia, Università degli Studi di Napoli Federico II

L’amore scandagliato nelle sue più svariate angolazioni e contraddizioni, l’amore incondizionato, oblativo; l’amore finalizzato al puro e semplice piacere e l’amore vissuto nell’ideologia animalista della società odierna. Questi gli ingredienti principali di “Amore non Amore”, l’originalissima commistione di poesia e canzoni presentata al teatro Sannazaro il 10 giugno, in occasione della dodicesima edizione del Napoli Teatro Festival Italia.

Non bisogna dimenticare, infatti, che il termine amore è un pollachòs legòmenon per usare un’espressione aristotelica: si dice in molti modi ed ha significati molto diversi tra loro. A volte perfino opposti. Ed è proprio sul filo degli opposti che si muove l’intera trama di questo spettacolo, tratto dall’omonimo canzoniere di Franco Marcoaldi.

Il percorso accidentato dell’amore prende forma e si apre a molteplici possibilità espressive, in un eterno presente scandito da baci e sentimenti contrapposti, in un continuo rimando tra parole e musica. Un eterno oggi che si carica di storia ma anche di denuncia sociale e civile, seguendo un sentiero che il poeta ha già affrontato in una precedente raccolta di poesie dal titolo Tutto qui (Einaudi 2017). Ma la particolarità del suo linguaggio sta tutta nel richiamo incondizionato alla semplicità e genuinità delle cose, nel ritorno a una ferialità perduta o dimenticata.

Storie e momenti di vita vissuta rappresentano, infatti, il contesto nel quale si dirigono gli strali di un Eros insipiente e bizzoso, che porta eccitazione e scompiglio nelle vite terrene ma anche quiete e soffocante noia. “Come farò a stare senza baci?/Senza poterti dire di continuo/che mi piaci?” si legge nei primi versi della poesia XXVII decantata in questa occasione.

La poesia minimale di Marcoaldi, che ben si predispone all’accompagnamento musicale e canoro,     è apparsa subito bene amalgamata ai brani del repertorio classico della canzone napoletana; questi meravigliosamente interpretati dalla voce e dalla mimica facciale di Peppe Servillo, la cui espressione grottesca e beffarda emergeva dall’oscurità del palcoscenico come una maschera tragicomica del teatro greco.

Cristiano Califano ha accompagnato le danze ritagliandosi uno spazio dignitoso, con una serie di motivi per sola chitarra. Dalle corde del suo strumento si potevano percepire sonorità misurate, riguardose del testo, che seguivano il ritmo ora cadenzato ora incalzante delle voci. Servillo è apparso ben calato nel ruolo assegnatogli, rivelandosi un efficace interprete dell’idea marcoaldiana dell’ambivalenza dei sentimenti e di quella sua concezione della letteratura intesa come costante spinta alla metamorfosi e alla trasfigurazione. Sonorità trascinanti, insomma, che non hanno mancato di coinvolgere anche il pubblico sulle note di Te voglio bene assaje, celebre componimento dalla indiscutibile forza penetrativa.