“Si può salvare un’anima se si fa lo scrittore, ma non si può fare uno scrittore se non si fa ciò che si è”: questa è Clotilde Marghieri, che racchiude se stessa in una frase di “Amati Enigmi”, romanzo in forma epistolare che nel 1974 vinse il Premio Viareggio. Lo porta in scena Licia Maglietta, in un omonimo spettacolo che ha debuttato al Napoli Teatro Festival dal 7 al 9 giugno nella cornice del Teatro Sannazaro, curandone regia, adattamento e scene.
Un lungo monologo ininterrotto, accompagnato delle note del mandolino di Tiziano Palladino posto su di un’alta pedana, ci fa conoscere questa penna sagace e vivacissima, che all’età di settantasette anni scriveva della sua esistenza come di una lunga ricerca volta al ricongiungimento tra vita e scrittura: è il libro l’ultima parola di tutto, o la vita stessa? Licia Maglietta si fa elegantissima e ironica interprete di questa domanda, seduta al centro del proscenio, in uno stretto contatto con un benevolo e divertito pubblico, dove le soffuse luci (di Cesare Accetta) di una scena notturna in un Capodanno lontano introducono ai pensieri più intimi della scrittrice.
Clotilde legge i suoi vecchi diari, li strappa e li brucia: in un dialogo immaginario con un suo amore, Jacques (in realtà il critico letterario Luigi Baldacci), ripercorre ricordi di un passato ancora vivido, modificato dal presente delle considerazioni di una donna che ha accolto il deperimento del proprio corpo con un’accettazione matura ma tagliente, e che continua a esercitare la propria mente tramite un’inarrestabile intelligenza. La penna geniale procede in un movimento di revisione saltellante, che confonde intenzionalmente date e circostanze, perché confondendole “il tempo si annulla in un eterno oggi.” “Solo ciò che è eterno vale la pena ricordare”, afferma la Marghieri, più beffarda che seriosa: non c’è nulla di eterno, nemmeno la scrittura dei suoi diari strappati; è la ricerca di un desiderio senescente, che vorrebbe gli esseri umani uniti in un panismo cristiano, al di là dei loro difetti, dei loro vuoti, della loro facciata. Clotilde capisce che dietro la maschera dell’uomo si nasconde la verità distruttiva della solitudine: allo scrittore il compito di preservarne e problematizzarne la relatività, la difficoltà. Due citazioni nel testo si inseriscono in questa presa di posizione: la prima, letteraria, di “Non chiederci la parola” di Montale, in cui lo scrittore è creatore di parole secche e storte come rami. La seconda, teatrale, del personaggio di Rosalina di Shakespeare, come Jacques amava chiamare la Marghieri: il personaggio silenzioso di “Romeo e Giulietta”, primo sofferto amore del rampollo dei Montecchi, irraggiungibile rosa nel mare del desiderio umano.
Così le parole della scrittrice e giornalista napoletana giungono alla fine del loro flusso, mentre un’applauditissima Licia Maglietta balla sulle note finali dello spettacolo.
Serena Barbato