Andato in scena il 23 e 24 giugno al Teatro Bellini, Euridice e Orfeo è una rivisitazione del celebre mito greco, che ha ispirato già numerosi poeti, drammaturghi, compositori e artisti di ogni genere, istintivamente attratti dalla riflessione sul rapporto amore-morte-arte che ne costituisce il tessuto filosofico.
Lo spettacolo è costruito intorno a tre monologhi: uno iniziale di Orfeo, poi uno di Euridice e, infine, ancora uno di Orfeo. Il tema della morte come perdita ineluttabile e tragica risuona continuamente nelle parole dei personaggi ed è suggerito visivamente da una scenografia cupa e macabra e da luci per lo più soffuse.
La storia d’amore tra i due protagonisti è rappresentata nel suo momento più doloroso, quando Orfeo ha maturato la consapevolezza dell’impossibilità di poter rivivere giorni felici insieme ad Euridice. Un amore in assenza dunque, un amore evocato piuttosto che mostrato, ad esempio quando si vede il protagonista ballare tenendo tra le mani l’abito di Euridice, come se la stesse conducendo in una danza.
Il tema dell’arte, infine, non è oggetto di una vera e propria riflessione né da parte di Euridice né da parte di Orfeo (l’artista per eccellenza della mitologia greca) ma è il filo rosso che tiene unita l’intera rappresentazione. A parte la raffinatezza della scena e dei costumi, infatti, a colpire immediatamente l’attenzione dello spettatore è la poeticità dei tre monologhi, caratterizzati da una prosa lirica estremamente suggestiva e rarefatta e accompagnati da un sottofondo musicale di strumenti a corda che richiamano in parte quello che poteva essere il suono di un’antica lira, lo strumento di Orfeo. Parola e suoni si intersecano sapientemente e sembrerebbe che la vera sfida degli autori sia quella di ridar vita al canto che per la sua bellezza fece schiudere le porte degli inferi.
Daniele Cusani